Regno "Unito"? Le incerte prospettive dell’(ex) Impero britannico

(di Andrea Forte)
18/07/22

I drammatici tempi umani - e dunque intrinsecamente geopolitici - che le collettività e le potenze che esprimono stanno vivendo, rendono ancor più urgente provare a delineare le prospettive di un impero del tutto particolare, ma sicuramente ancora vivo, perlomeno nello spirito e nella percezione che ha di sé, come quello britannico. Per farlo non si può non partire dall'inquadrare bene il tipo di soggetto di cui si sta parlando.

Non nazione, ma impero appunto, ed impero tra i più sofisticati e capaci della storia moderna e contemporanea. Neppure un regno dunque e neppure britannico, ma impero e inglese. Quando infatti si parla di Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord si entra immediatamente nella profonda capacità inglese di nascondere (dunque proteggere e perciò stesso sublimare) il proprio dominio sulle genti dell'isola chiamata "Gran Bretagna" e sulla parte settentrionale di quella irlandese.

Britannico è un aggettivo che fa sembrare pari e associati gli “inquilini” delle province celtiche, ma è retorica, compensazione linguistica del dominato. Ceppo dominante allora non vuol dire altro che l’unità va intesa come unificazione ad opera dei germanici/anglosassoni, che decidono del destino delle popolazioni del Galles, della Scozia e dell'Irlanda del Nord.

Certo, si sta parlando di un impero, che si può definire innanzitutto tale solo sui generis, considerato che è sottomesso ad un altro impero, che è l’attuale egemone globale, gli Stati Uniti, eppure anche e proprio con essi tocchiamo geopoliticamente il parto di potenza, di cui gli inglesi sono stati capaci, poiché gli Stati Uniti nascono come rivoluzionari patricidi e monarchicidi nei confronti di Londra, ma già nel nome qualcosa si intravede della loro rinnegata origine.

Come il nome Inghilterra si cela dietro la dicitura di Regno Unito, così le tredici colonie si definiscono ancor più genericamente che repubbliche, Stati, e anch’essi Uniti, massima potenza incartata nella massima vaghezza, a fingere che nell’essenza imperiale non sia insita una gerarchia e dunque un dominio degli uni sugli altri. Appunto da essi, dagli USA, da come sorgono, si intravede che un impero, se è grande nell'ascesa, lo è ancor più nella discesa, perché essa, più ancora della prima, necessità della saggezza.

È proprio nel discendere infatti che ancora una volta gli inglesi hanno dato prova della propria superiore capacità di produrre storia per sé e per gli altri popoli. Quando infatti si dissanguano nella prima guerra mondiale e più ancora arrivano all'estremo del sacrificio nella seconda, sentono di essere andati oltre le proprie forze, hanno vinto, ma sono sfiniti. Eppure, invece di accettare l'idea della propria fine, la trasfigurano, in omaggio alla vera natura di ogni comunità, che diventa geopolitica proprio quando e perché non accetta la sua finitudine, il suo essere comunque creazione mortale. Non accettare tale fine, ritardarla il più possibile, per questo gli inglesi, da Churchill e soprattutto dalla crisi di Suez nel ’56, si convinceranno di vivere non nel declino, ma nella traslatio imperii, secondo cui la nuova debolezza non starebbe a significare che l'impero inglese decade né tantomeno che stia morendo, piuttosto si trasferisce, passa la propria forza, mai scalfita, al proprio figlio germanico d’oltreoceano.

Dono dunque, non declino. Massima finzione di un pensiero che proprio perché e fintantoché rimane imperiale, produce menzogne e illusioni, ovvero pedagogia e propaganda. Da quel momento in poi Londra si sforza di riposizionare l’idea grandiosa che ha di sé con la sua nuova fragilità, cerca cioè di far parte del mondo “medio”, posto piccolo per un inglese, troppo piccolo.

L'entrata nell'Unione Europea così come l’ovvia partecipazione nel campo statunitense alla guerra fredda non sono altro che i primi passi in questa nuova condizione di subordine, di cui la decolonizzazione delle proprie province e la loro trasformazione in associati in modo più o meno vincolato al campo inglese non è altro che la firma più appariscente di questo movimento.

Sia ben chiaro, per gli inglesi, e sarà la Thatcher a ricordarlo, non si tratta di essere diventati un peso medio, ma un peso massimo che gioca nel campo medio e lì ancora per poter primeggiare. Forse illusione anch’essa, ma sufficientemente vera e dimostrabile per continuare a sognarsi grandi.

La lezione data all’Argentina è messaggio al medio, l’impero britannico (inglese) può ancora vincere guerre e difendere le proprie province, fossero anche sperduti scogli a migliaia di km dalla madrepatria. “Non si confonda il passo lento con l’incapacità di andare lontano”, questo il monito della Lady di ferro.

Dunque sì, un impero che non vuole né può rinunciare a quei remoti frammenti geografici assolutamente strategici, in cui è ancora insediato e da cui ancora promana quel residuo di potenza che possiede. Ma la primo ministro non si sogna di lasciare l’UE, conosce bene i limiti del proprio “animale” geopolitico. Serve insinuarlo nei consessi, che non può più permettersi di snobbare.

L’isolamento è il lusso dei più forti e forse neppure loro. “Sciogliersi” nelle organizzazioni significa sia sfruttarle che azzopparle. Ancora una volta, con lei, la fibra imperiale inglese sa che celarsi è più vantaggioso che esporsi.

Un impero debole tuttavia può sopravvivere se il suo fattore umano, se la sua popolazione rimane compatta, omogeneamente convinta del proprio destino comune e che esso giustifichi un'enorme dose di sacrifici. L’aver invece attuato l'uscita dall'UE senza una maggioranza popolare schiacciante e soprattutto con la contrarietà delle genti delle isole britanniche e della propria stessa capitale, ha delineato una prima crepa nella certezza che le elites inglesi sappiano mantenere la nave britannica salda fra le onde della storia in tempesta.

La Brexit non è altro che prendere una direzione estremamente incerta. Calcio potente, ma forse dato all’aria. Mostrandosi disposti a perseguirla a costo di perdere quello che può essere definita un vero e proprio pilastro della sicurezza strategica di Londra, ovvero accettando quella barriera doganale tra sé e l’Irlanda del Nord, porta in sé l'odore della debolezza e dell’assenza di giudizio nel lasciare andare un avamposto geografico naturale, da cui garantire l'intangibilità almeno di tutta la costa occidentale della Gran Bretagna.

Quando salvare il salvabile arriva al punto di rinunciare anche all'essenziale, allora vuol dire che il cancro sta per arrivare al cuore dell'impero. Percezione, questa sì, ben chiara alle classi dirigenti inglesi, che però hanno reagito apparentemente con una mossa, la Brexit appunto, che rischia di far franare ancora di più l’edificio che si voleva salvare. Consci della malattia, meno sicuri della cura.

Certo, nella loro testa l'Unione Europea è una costruzione che rischiava di indebolire ancor di più quel poco rimasto al dominio di Londra e tuttavia il punto di diluizione nelle province potrebbe essere arrivato ormai a un livello tale per cui la Brexit èavvenuta fuori tempo massimo e perciò con un effetto più nocivo che vantaggioso. Un vero e proprio acceleratore di disgregazione, che innesca in un unico vortice unico europeismo e indipendentismo dei sudditi celtici, oltre a implicare un quasi abbandono dei propri fedeli unionisti nordirlandesi, veri inglesi in terra irlandese. Un tragico sacrificio di una delle prime linee più leali della potenza inglese, una terribile auto-mutilazione del proprio fattore umano più esposto. Firmare un protocollo, che ammette una certa barriera, seppur di natura apparentemente solo commerciale, tra Londra e Belfast, non può non avere un connotato geopolitico di ulteriore discesa.

La situazione attuale ormai impone al Regno Unito di non fare marcia indietro sulla Brexit, ma al tempo stesso costringe a cercare di conciliare la strada intrapresa in una nuova trasfigurazione imperiale, molto più fittizia ed evanescente (per non dire utopica e onirica) della traslazione di ottant’anni prima, ovvero la cosiddetta nuova Global Britain. Se quella passata fu il passaggio di testimone a una potenza ben più reale e pesante, per mascherare il proprio essere quasi a terra, oggi l’ideologia della Global Britain sembra, nella sua vaghezza, nient'altro che il dire a se stessi “io non voglio morire, ma non so come fare. Io ho ancora la forza di lottare per esserci.” Forza effettiva e innegabile, capace ancora di giocare un ruolo insostituibile per gli stessi Stati Uniti e il cui successo potrebbe permettere, se non di conservare Belfast, almeno Edimburgo, per mantenere status e spessore di potenza necessari a Washington a sigillare sempre di più soprattutto la Russia nel fronte nord, facendo da perno e sostegno alle nuove leve di Svezia e Finlandia, prima ancora del loro ingresso nella Nato (ormai scontato).

È in sostanza il vecchio gioco del mostrarsi necessario al proprio dominus, oggi applicato alla guerra d’Ucraina, che non solo risveglia il pensarsi impero degli inglesi, in contrapposizione a quello russo, ma è anche l’occasione per farsi gran vicario degli americani nel dissanguamento di Mosca. Quando infatti insieme a Polonia e baltici la Gran Bretagna si pone come avanguardia dello scontro frontale con i russi, Londra cerca verso l'alto di dimostrarsi appunto il capace braccio statunitense nel contenimento contro l’“orso”, ma rafforzando quell’intercalare tra Russia e Germania, dimostra anche l’impostazione di contenimento antitedesco, separando sempre più Mosca da Berlino. Perché la postura inglese è tesa anche a farsi punto di riferimento militare e politico di quei Paesi dell'Europa orientale spaventati tanto dall'ex Urss, quanto da un risorgere della potenza tedesca, la quale, qualora si stesse davvero rimettendo in cammino, non potrebbe non cercare di estendere una propria area di influenza alle nazioni dell'Europa orientale.

Infine Londra sta riuscendo a farsi promotrice verso l’Ucraina di un gruppo di volenterosi Paesi, che vada dalla Gran Bretagna alla Polonia ai baltici, fino alla stessa Turchia, che ne garantisca i futuri confini, quali che essi siano, ovviamente in senso antirusso. Un sottogruppo Nato di collettività disposte alla guerra (con l’utile eccezione della Turchia, che è sì disposta alla guerra, ma non necessariamente contro la Russia) ben più degli euro-occidentali.

Tutto quanto ho detto finora non è certo sufficiente a delineare un quadro completo dei punti di forza e di fragilità di un impero come quello inglese e tuttavia è sufficiente a far comprendere che la potenza di Londra ha ancora qualcosa da dire al proprio dominus, ai proprio alleati e ai propri avversari, ed è una voce entro certi limiti ancora insostituibile per gli equilibri del nostro mondo.

Che questo basti a impedire il collasso, l'implosione, ovvero la separazione di Scozia e Irlanda del Nord e forse, in un ipotetico e per ora inimmaginabile futuro, dello stesso Galles, rimane da vedere, ma nessun impero come quello britannico probabilmente accetterebbe questo esito seduto in silenzio in attesa del sopraggiungere, lontano ma inesorabile, del sonno finale.

Foto: UK MoD