Le elezioni negli Stati Uniti e la battaglia contro il Covid hanno fatto passare in secondo piano lo svolgimento del 5° Plenum del 19° Comitato centrale del partito comunista cinese (PCC), tenutosi dal 26 al 29 ottobre scorsi1.
Nella capitale cinese si sono radunati oltre 300 delegati del Comitato centrale del Partito per discutere le linee programmatiche del 14° Piano quinquennale (2021-2025) e quelle riferite alla strategia di medio termine “Visione 2035”, che saranno entrambe approvate formalmente il prossimo anno, nel corso dell’assemblea nazionale del popolo.
Tra le linee guida proposte, alcune sono indicative del momento storico che sta attraversando il Dragone.
Come l’auspicata autosufficienza economica e tecnologica, soprattutto nel campo dei cosiddetti “cluster tecnologici” (intelligenza artificiale, potenza di calcolo, 5G, robotica, guida autonoma) e in quello, ad essi collegato, della produzione di microchip e semiconduttori, che la Cina ancora acquista in massima parte all’estero (USA e Taiwan).
La guerra dei dazi di Trump, e il processo di “decoupling” (sganciamento della economia USA da quella cinese) ha reso quanto mai evidente per Pechino la necessità di disporre di un sistema economico sempre più rivolto al mercato interno, e quindi di una classe media con una maggiore capacità di spesa.
“Doppia circolazione” la chiama Xi Jinping: un’economia basata su due livelli di mercato, uno esterno e uno interno, in grado di ridistribuire reddito a fasce di popolazione via via più ampie.
Un progetto ambizioso che, si legge nel comunicato finale, richiede il rafforzamento del potere centrale del Partito, plasticamente rappresentato dalla proroga a vita dell’incarico di segretario generale.
I lavori appena conclusi mettono in luce il completo recepimento della lezione di Deng Xiaoping2, che vedeva nel rafforzamento dell’economia la premessa per la stabilità sociale, e descrivono una visione “colbertiana” dello Stato, secondo la quale il peso geopolitico è il riflesso di quello economico. E poiché la geopolitica è incentrata principalmente sulla capacità di difesa (hard e soft) dei propri interessi, ecco che la Cina si propone, nel prossimo quinquennio, da un lato di “accelerare la modernizzazione della difesa nazionale e dell’esercito”, con l’ambizione di disporre di uno strumento potente e competitivo (con quello USA), dall’altro di “rafforzare il soft power, in campo culturale” (ne abbiamo già scritto3).
Sono questi, in linea di massima, i punti più rilevanti emersi dai lavori, con un cenno finale alla città di Hong Kong, destinata a diventare, assieme a quelle di Shenzhen e Guangzhou, perno dell’”area del fiume delle Perle”, affiancando così le altre due aree economiche fondamentali del sistema cinese: quella del "delta del fiume Azzurro” con al centro Shanghai, e quella compresa tra Pechino, Tianjin e Xiong’an.
Sovranità e supremazia tecnologica sono le parole che più di ogni altra potrebbero descrivere gli obiettivi scelti dalla dirigenza cinese da qui al 2025.
Nulla di sorprendente, se contestualizzato alla realtà politica di una potenza in continua ascesa, che necessita di una narrativa coerente con le sue ambizioni.
Più insolito è stato invece leggere quelle stesse parole, lo scorso 11 novembre, nell’appello rivolto dalle pagine del Corriere della Sera, da cinque docenti italiani di altrettanti atenei europei4.
Questi, dopo aver fatto l’elenco delle nuove tecnologie 4.0 in cui occorre investire, anche utilizzando le risorse del Recovery Fund, concludono che “in tutti questi ambiti servono sovranità e supremazia”, per compensare, da un lato gli ingenti investimenti statali e il dirigismo con cui Pechino incentiva le nuove tecnologie, e dall’altro i miliardi di dollari provenienti da fondi privati (venture capital), che ogni anno piovono sulle aziende della Silicon Valley californiana.
Vedere utilizzati termini così simili, a latitudini (anche culturali) così distanti, è il segno di un cambio di rotta dell’epoca storica che viviamo.
L’ultima fase della globalizzazione5 partita negli anni 80 ha certamente avuto molti effetti, tra cui quello di creare nuovi mercati e nuove catene di valore, intrecciate tra loro a livello globale, e distribuite ovunque fosse possibile disporre di manodopera a costi competitivi. Un sistema al ribasso, con unico paradigma il costo del lavoro, per il quale la produzione di beni è stata frazionata in più parti, e distribuita in aree del globo distanti fra loro.
In questo contesto generale, privo di confini e retto solo dalle leggi del mercato, sono cresciuti, a partire dai primi anni del millennio, i campioni della rete, da cui è partita la rivoluzione digitale in atto.
Google, Facebook e Amazon in USA, e Baidu, Alibaba e Tencent in Cina, per rimanere ai principali, hanno monopolizzato la ricerca e lo sfruttamento commerciale delle nuove tecnologie, interloquendo direttamente con gli Stati e rovesciando, per lo meno in Occidente, gli equilibri di potere preesistenti tra pubblico e privato, con il risultato che la politica ha finito per soccombere all’interesse privato.
Gli “unicorni6” hanno così avuto la libertà di plasmare il presente, creando, in regime di monopolio, nuovi mercati e nuove catene di valore globali, facilitati in questo, oltre che dal campo aperto della globalizzazione, anche dal combinato disposto tra l’assenza di norme in grado di disciplinare l’utilizzo commerciale delle nuove tecnologie e l’inadeguatezza delle autorità a comprendere sino in fondo il processo storico che si stava dischiudendo.
La pandemia corrente ha messo parzialmente in luce le conseguenze dovute alla esternalizzazione al di fuori dei confini nazionali delle produzioni industriali ritenute strategiche.
Nel testo della lettera7 inviata a marzo 2020 da nove leader europei a Charles Michel (foto), presidente del Consiglio europeo si legge infatti che “abbiamo anche bisogno di assicurare che le principali catene di valore possano funzionare appieno all’interno dei confini dell’UE e che nessuna produzione strategica sia preda di acquisizioni ostili in questa fase di difficoltà economica."
Ed essendo le nuove tecnologie tutte o quasi potenzialmente duali, quindi con possibilità di impiego anche nel campo militare convenzionale e in quello, più ampio, delle guerre ibride, ecco che il controllo di esse da parte dello Stato assume più che mai una valenza strategica.
In altre parole, poter vigilare sulle fasi di sviluppo e la produzione di tutte le tecnologie 4.0, da quelle legate all’intelligenza artificiale (machine learning e deep learning) a quelle quantistiche e dei materiali, dall’internet delle cose alla robotica, per finire allo sviluppo di algoritmi e alla potenza di calcolo di macchine sempre più veloci (Esaflop e quantistiche) diventa oggi un fattore cruciale della più generale politica di sicurezza.
Risulta, pertanto, sempre più importante avere il controllo delle catene di valore, segnatamente di quelle orientate alla produzione delle componentistiche che rientrano nelle nuove tecnologie, e impedire agli stati competitor di consolidare, in quel dato segmento produttivo, posizioni di vantaggio.
In futuro, ne siamo certi, l’autosufficienza in tutte le tecnologie definite “esponenziali” diventerà quanto mai dirimente nei rapporti tra Stati, e costituirà la cifra del loro peso specifico.
La Cina lo ha capito, come si evince non solo da quanto emerso nel corso dell’ultimo Plenum, ma anche dai numerosi documenti ufficiali con cui negli ultimi anni è stato dato impulso alla sua autonomia tecnologica.
Evidentemente, per Pechino è molto più facile indirizzare la ricerca e sviluppo nel settore privato, agevolando o negando finanziamenti a seconda del grado di ricettività agli input governativi di questo o quel imprenditore, e creando forti sinergie con le industrie e le università della difesa8.
Anche gli Stati Uniti hanno capito questo concetto, grazie anche alla decisa azione dell’amministrazione Trump, che negli ultimi due anni ha sferrato una raffica di dazi miranti soprattutto ai beni tecnologici cinesi.
Quella di Trump, infatti, al contrario di quel che sembra, non è una guerra commerciale.
Da anni, infatti, la difesa statunitense impiega componentistica cinese in sistemi e apparati d’arma di valenza strategica, così come da lungo tempo Pechino acquisisce know how e tecnologia americana investendo in compagnie e centri di ricerca a stelle e strisce, o semplicemente favorendo gli studi e il lavoro di propri connazionali negli USA (salvo poi richiamarli in patria).
In tale ottica, l’offensiva di Trump è stata principalmente di natura geopolitica, con l’obiettivo di infliggere all’avversario una battuta d’arresto nel campo dei principali cluster tecnologici, e, in ultima analisi, impedirgli un vantaggio tecnologico.
Ne deriva che la globalizzazione sta subendo ai giorni nostri una netta inversione di rotta. Dopo anni di mercantilismo selvaggio e di marginalità delle politiche statali a tutto vantaggio degli “animal spirit”9 dei mercati, nella fase storica corrente - come sostengono Francesca e Luca Balestrieri10 - “competizione geopolitica e lotta per la leadership tecnologico-industriale si sovrappongono” .
È un fenomeno ormai avviato, spinto anche dal fatto che la politica degli Stati, minacciata dallo potenzialità delle nuove tecnologie digitali e dallo strapotere degli unicorni, inizia a “delineare strategie per competere nel mercato digitale".
L’ampio spettro delle tecnologie 4.0 costituisce nel XXI secolo il nuovo arsenale bellico, e la competizione per acquisire posizioni di vantaggio nelle filiere ad esse collegate, la nuova corsa agli armamenti.
1http://www.asianews.it/notizie-it/Dal-26-al-29-ottobre-il-5°-Plenum-del-Partito-comunista-cinese-51160.html
10 “Guerra Digitale”, ed. LUISS, 2019 di Francesca Balestrieri e Luca Balestrieri
Foto: Xinhua News Agency / MoD People's Republic of China / Unione Europea