Giochiamo con la logica e troviamo un punto geopolitico che unisca Grecia classica e Teoria del Caos1: Taiwan.
La pax americana è erosa dagli equilibri determinati dall’espansione cinese che ha una crescita economica associata alla rivendicazione di isole anche lontane, ma strategicamente essenziali. In ambito Asean2 il timore della Cina è divenuto più forte del bisogno sicché USA, Giappone e Australia sono divenuti l’unica arma diplomatica da utilizzare, tanto che l’intesa tra Hanoi e Washington per l’uso di strutture portuali vietnamite non deve sorprendere: la guerra è ormai consegnata alla storia. Anche nell’Oceano Indiano i rapporti politici sono inaspriti per il filo di perle che la Cina sta realizzando intorno New Delhi grazie all’appoggio Pakistano.
Crescita e crisi interne hanno ridestato imperialismi nazionalistici che solo l’Europa non comprende. La Cina influenza la politica regionale brandendo l’arma dell’integrazione economica, una pressione esercitata in particolare su Taiwan, la portaerei inaffondabile di MacArthur, nonché provincia ribelle dell’impero rosso; un sistema che autorizza Pechino ad essere assertiva nel menage di Stati loro malgrado invischiati nella rete del Dragone, e dunque vulnerabili alla BRI3.
Secondo Xi Jinping “...la divisione politica attraverso lo Stretto (di Taiwan) dovrà essere gradualmente risolta...” prevedendo per il centenario della RPC4 nel 2049 una riunificazione anche con l’uso delle armi, affermazione che ha indotto John Mearsheimer5 ad ipotizzare la prossima caduta dello Stato Taiwanese.
La logica ricorre con la Grecia di Tucidide e la sua trappola, ovvero la tendenza dell’egemone (ora americano) a ricorrere alla forza per contenere una potenza emergente, dando per scontato lo scontro6 preconizzato da Obama con il suo pivot to Asia, ed il battito d’ali della farfalla Tsai Ing-wei (foto), la rieletta presidentessa di una Taiwan che sente più forte senso identitario e sovranità anche se oggetto continuo di pressioni militari Cinesi, controbilanciate dalla U.S. Navy.
Se è vero che Xi Jinping controlla la Cina, è però altrettanto vero che la guerra commerciale con gli americani ha acuito lo scontento, alimentato dai superstiti della campagna anticorruzione, da frange di militari non originari di Nanchino e dalla classe media penalizzata dalla crisi immobiliare e dei mercati; aggiungiamo la discutibile gestione della pandemia che da flagello potrebbe tramutarsi per Xi, contro concorrenti politicamente sterili, in una rara occasione egemonica imperiale, un’opportunità alimentata dall’ignoranza di attori (segnatamente europei) che non riescono a distinguere la differenza tra l’autoritarismo pechinese ed il sistema elettorale e democratico di Taiwan, completamente avulso dagli indirizzi del Grande Timoniere: autosufficienza, centralità decisionale, un progetto insindacabile di vertice soggetto tuttavia alla crisi provocata dall’inattività commerciale delle zone costiere.
Malgrado la bonomia oleografica, Xi ha presenti le sei guerre che la Cina dovrà combattere nel prossimo cinquantennio, e che riguardano la riconquista di territori ritenuti ingiustamente sottratti: Taiwan, l’ultimo ostacolo al libero accesso al Pacifico; le isole Spratly; il Tibet meridionale oggi controllato dall’India; le isole Diaoyu/Senkaku attualmente amministrate dal Giappone; la Mongolia esterna; i territori ceduti alla Russia.
Parafrasando Edoardo Bennato, Taiwan è l’isola che non c’è, l’unica nazione cinese che elegge democraticamente il suo Presidente, ora di nuovo la Signora Tsai Ing-wei, amabilmente tacciata di perversione sessuale in quanto nubile, che difende i suoi principi ma che sa anche mediare in un contesto internazionale che vede il suo Stato costretto ad una difficile sopravvivenza a causa dell’isolamento diplomatico cui la sta costringendo Pechino, grazie anche alla geopolitica Vaticana, ultimamente scesa a patti con il regime di Xi, e tramutatasi in un’incognita per Taipei che pure, non più tardi del gennaio scorso, ha cercato invano una sponda nel Pontefice romano.
Taiwan è la prova del fallimento di un multilateralismo che non le riconosce né la dignità di un seggio ONU, né la testimonianza di essere riuscita a contenere efficacemente la pandemia di Covid 19 a causa della mancata ammissione all’OMS che, presto, dovrà invece chiarire molti aspetti ancora sfuggenti della sua gestione dell’emergenza.
La Signora Tsai, che ha portato la classe dirigente di Pechino sull’orlo di una crisi di nervi, e che non riconosce il Consenso del 1992 che prevede un unico stato sovrano titolato a portare il nome Cina, opponendosi a qualsiasi interferenza esterna alla sovranità di Taiwan predilige il realismo: ha fatto approvare profonde riforme sociali nell’unico Paese asiatico ad aver legalizzato le unioni civili, adottando peraltro una moratoria di fatto sulle sentenze capitali.
Ma la questione più importante rimane legata alle Cross State Relations, i rapporti con Pechino; malgrado non siano ancora maturi i tempi per proclamare un’indipendenza de jure, quest’ultima già esiste de facto. Pechino ha rilanciato con la proposta di “un Paese due sistemi”, alimentando tuttavia il sentimento indipendentista di un popolo che guarda preoccupato alle vicende di Hong Kong refrattaria al Progetto di Educazione Nazionale, ed a Macao, ambedue coinvolte nella realizzazione dell’Area della Grande Baia, utile a favorire l’integrazione con l’entroterra continentale.
Interessante (ma ignorato ad Ovest) il movimento della Milk Tea Alliance che, in Thailandia, Taiwan e Hong Kong, sta mobilitando i giovani contro le ingerenze cinesi, specie ora che Pechino sta cercando di ripristinare un’immagine compromessa dalla gestione del coronavirus e dal ritorno dei fantasmi di Tien an Men.
Se Taiwan, isola chiave per l’espansione cinese e per l’opera di contenimento da parte USA, non è ora conquistabile con le armi tradizionali, va comunque ricordata la maestria cinese nell’uso delle tecniche asimmetriche, anche a fronte della Fish Hook Undersea Defense Line, il sistema acustico sottomarino esteso dal Giappone all’Australia e finalizzato a contrastare le attività subacquee dell’EPL7. I dispositivi A2/AD8 cinesi prevedono l’uso congiunto di missili e mezzi aeronavali che potrebbero infiltrarsi tra lo Stretto di Taiwan e le basi americane di Filippine e Giappone, con Pechino comunque costretta ad un confronto asimmetrico con gli USA, contrastati con un confronto sistematico teso a garantire un attacco di saturazione alle portaerei.
Attualmente l’ostacolo all’unificazione di Taiwan non è quindi solo la resistenza di Taipei, ma anche l’interferenza USA e Giappone cui potrebbe aggiungersi, quale casus belli, sia lo sviluppo di capacità nucleari in grado di imporre, in caso di conflitto, un prezzo intollerabile, sia la più concreta possibilità che Taiwan possa acquisire un sistema missilistico anti balistico TMD9; quel che è certo, è che gli USA non rinunceranno alla rilevanza geostrategica di Taiwan, cosa che ha indotto l’Amministrazione americana, anche in forza del National Defense Act, ad implementare le capacità di difesa Taiwanesi con la vendita di armi per oltre 2 miliardi di USD10, costringendo la Cina ad ipotizzare i panorami peggiori, in cui gli USA non accetteranno più passivamente ulteriori azioni contro le loro unità navali.
Tiriamo le somme: è evidente che il teatro del Pacifico sarà il punto di detonazione del prossimo conflitto non regionale tra egemoni consolidati ed aspiranti tali, ed è altrettanto chiaro che gli avversari interni di Xi, pur criticando il revival maoista, non sembrano in grado di provocare crisi di palazzo.
Ciò che risalta in modo preoccupante è la mancata percezione europea della crisi che sta maturando; l’infodemia cinese sulla pandemia ha intasato i canali ufficiali falsando, laddove le è stato consentito, ogni tipo di narrazione, arrivando finanche a stravolgere l’oggettività dei fatti. Gli studenti caduti a Tien an Men sono stati abbandonati un’altra volta, e l’aggressività cinese volutamente trascurata, così come sono ancora trascurate pressioni economiche e forme di offesa asimmetrica costantemente messe in atto.
Al momento l’Occidente, autorecluso in cortili ottusi ed asfittici, sembra del tutto incapace sia di guardare alla sua storia sia di impostare un’efficace politica di contenimento. Volgere le spalle al Tibet ed ai giovani di Hong Kong, significa abbandonare al loro destino anche quelli di Taiwan, dimenticando che il contesto regionale asiatico porta nel suo DNA i germi di contrasti planetari che, molto presto e con il Dragone che impaziente corre ad armarsi, imporranno prese di posizione chiare e non levantinamente ondivaghe.
1 il batter d'ali di una farfalla in Brasile può provocare un tornado in Texas
2 Associazione delle Nazioni del Sud Est Asiatico
3 Belt and Road Initiative
4 Repubblica Popolare Cinese
5 Politologo americano di scuola realista
6 Harvard Graham Tillett Allison Jr. nel suo libro Destined for war
7 Esercito Popolare di Liberazione
8 anti-accesso/interdizione d’area
9 Theater Missile Defense
10 carri armati M1A2T Abrams, sistemi di difesa aerea portatili Stinger e attrezzature e supporto correlati.
Foto: web / CNA / NASA / facebook / U.S. Navy