A giorni dovrebbe essere annunciata la partenza del contingente militare italiano diretto nel Sahel per partecipare all’operazione Takuba sotto comando francese. Come anticipato da “Difesa Online”(v.articolo) i 200 soldati italiani – tra operatori delle forze speciali ed unità d’appoggio con elicotteri e veicoli come LINCE e Flyer 4x4 – diretti in Mali saranno impegnati sia in attività di addestramento delle forze regolari locali, accompagnandole anche sul campo, sia nella ricerca ed individuazione di obiettivi in profondità coadiuvando da terra le forze aeree francesi dell’operazione Barkhane.
I soldati italiani nel Sahel non parteciperanno ad una “missione di pace” né, per le caratteristiche stesse del conflitto in Mali, potrebbero avere solo compiti di supporto ed evacuazione sanitaria, ma saranno necessariamente impegnati anche sul lato “combat”, partecipando agli scontri con i jihadisti Tuareg, forze ben addestrate, capaci di utilizzare armi pesanti, che conoscono bene il deserto e che sanno guadagnare l’appoggio delle popolazioni locali. Quello con il quale i nostri militari si confronteranno sarà uno scenario non facile viste anche le difficoltà incontrate dalle forze regolari maliane nei recenti combattimenti contro i terroristi e dove, quindi, il “peso determinante” della guerra ricade sulle truppe occidentali.
Al di là del naturale – e doveroso – silenzio delle istituzioni politiche e militari relativo alla preparazione del contingente italiano diretto nel Shael, sulla stampa specializzata più di qualcuno ha storto il naso sulla reale utilità di inviare truppe nell’Africa occidentale, paventando il rischio di una “sottomissione” degli interessi italiani a quelli francesi.
La partecipazione italiana alla Task Force Takuba però è tanto più importante ora che in Libia, con il governo di unità nazionale guidato dal misuratino Abdul Hamid Mohammed Dbeibeh, sembra essere iniziata – con tutte le riserve del caso – una nuova fase per la stabilizzazione del Paese e, con esso, dell’Africa mediterranea. Tra le problematiche all’ordine del giorno per l’esecutivo “a sovranità limitata” libico incaricato di gestire la transizione vi sono il disarmo di milizie, bande e tribù, le garanzie sulla produzione del petrolio ma anche il controllo delle porose frontiere, in particolare di quella meridionale. Ma le notizie della costruzione di un nuovo campo trincerato tra Sirte ed al-Jufra non lascia ben sperare sull’unità del Paese. Da tenere ben presente è il fatto che la centrale operativa del jihadismo nordafricano, nell’area instabile che comprende Mali, Niger e Ciad – lambendo anche il Sudan – sia proprio il Fezzan.
Nel corso del conflitto libico varie volte si è registrato il passaggio del confine libico-ciadiano, in entrambe le direzioni, di milizie islamiste, alcune delle quali dirette anche in Mali. Così come dal Mali, passando per l’anarchico confine algerino, molti islamisti si sono diretti, armi e bagagli, in Libia.
Quella combattuta dal governo di Bamako e dai francesi contro la “strana alleanza” tra i reduci dello Stato Islamico ed al-Qāʿida nel Maghreb islamico (caso unico nel panorama dell’islamismo internazionale) non è una guerra slegata dal conflitto libico e dall’instabilità sistemica dell’Africa mediterranea. Le milizie tuareg islamiste sono state protagoniste della guerra in Libia, in particolare sul fronte del Fezzan, e sono forze formidabili nel combattimento in scenario desertico, basti pensare alle vittorie ottenute contro i Maliani.
La situazione sul campo in Mali, dove la metà settentrionale del Paese resta in mano ai miliziani del Movimento Nazionale dell’Azawad – con una condotta alquanto ambigua - e delle varie sigle islamiste, impone ai franco-maliani (e così succederà per gli Italiani) di portare avanti rapide operazioni in profondità partendo da forti isolati nel deserto, dove la difficoltà sta nel mantenere il controllo del territorio e nella velocità dei rifornimenti. In Mali è tornato di moda il principio tattico tardo-ottocentesco della “catena in combattimento” (per approfondire: C. Ponza di San Martino, La catena in combattimento, in “Rivista Militare”, Tomo I, marzo, 1892) applicato però agli standard della guerra moderna, dove piccole unità combattenti (supportate dall’alto) possono, con superiore volume di fuoco e rifornimenti costanti di armi e munizioni, irretire forze nemiche notevolmente superiori subendo, in percentuale, perdite irrisorie.
Il generale François Lecointre, capo di stato maggiore delle forze armate francesi ha ribadito recentemente che l’indicatore del successo della missione sta negli effetti ottenuti da Barkhane, come la capacità di privare i jihadisti della loro libertà di movimento e favorire, al contempo, il ritorno delle forze governative in territori che, caduti sotto il tacco islamista, sembrano essere inaccessibili. Questa necessità insieme di “grande tattica” e strategica, obbliga ad operazioni in profondità nelle quali il supporto aereo è fondamentale per sostenere le forze sul terreno. Proprio la centralità del sostegno dall’alto alle operazioni terrestri ha aperto un ampio dibattito in Francia che ha coinvolto non solo i militari ma anche la politica (v.articolo) e da più parti è stato evidenziato che la disponibilità di elicotteri è appena sufficiente a condurre le operazioni che comportano, a ritmo con il quale vengono effettuate azioni di combattimento (una ogni tre giorni secondo i dati del 2020), anche un notevole consumo e necessità di pezzi di ricambio il cui numero non riesce a soddisfare la richiesta. Da qui risulta quasi naturale dedurre che ai francesi servano come il pane uomini e mezzi alleati, compresi quelli dell’Esercito Italiano.
Tra 1.200 e 1.500 orbita la cifra dei miliziani jihadisti uccisi e/o messi fuori combattimento dalle forze francesi ed alleate nel 2020 nel settore operativo nel quale opererà anche la task force italiana; una cifra considerevole ma che non deve ingannare: nel conflitto maliano il calcolo bruto dei numeri conta poco, è invece essenziale quello dei chilometri di territorio controllati. Il fattore geografico schiaccia quello matematico.
Per gli Italiani quello nel Sahel sarà un impegno complesso ma strategicamente necessario non solo per rafforzare la propria presenza in Africa ma, soprattutto, per sostenere da un fronte di primaria importanza – ma che appare periferico – il processo di stabilizzazione libico ed evitare nuove escrescenze delle crisi in Algeria e Tunisia.
Parlare di “Mediterraneo allargato” senza estendere la portata strategico-geografica di questa definizione all’entroterra saheliano altro non sarebbe che un mero esercizio retorico. Invece il “Mediterraneo allargato” è il concetto strategico politico-militare entro cui l’Italia deve garantire i propri interessi, anche con le armi ove necessario, proprio come in Mali.
Foto: Opération Barkhane