Turchia: nazionalismo e negazionismo, la tradizione continua

(di Gino Lanzara)
16/03/20

La cronaca del disastro annunciato del Covid-19, obbliga ad ampliare la visuale sui diversi teatri, perché quanto si sta delineando indirizzerà il prossimo avvenire e perché è la pandemia stessa che sta governando la barra delle relazioni internazionali. Attenzione dunque all’East Med ed alla Turchia, e giochiamo con presente e futuro, basandoci su dati reali e proiezioni di potenza.

Nata dalle ceneri ottomane, la nuova Turchia ha tentato l’integrazione europea, ma è stata prima frenata da una marcata carenza di istruzione, e poi condizionata da un sistema educativo basato su una matrice nazionalista volta a condizionare l’identità nazionale delle generazioni più giovani.

Ultimamente gli organi d’informazione anatolici, supportati da scienziati locali, hanno rassicurato la popolazione circa la pandemia in corso, appellandosi all’esistenza di un gene turco in grado di impedire il contagio; stupiti? Non dovete; già dagli anni ‘20 il regime kemalista sostenne la Tesi Storica Turca, scientificamente inconsistente, per cui i Turchi sarebbero il popolo più antico del mondo, con quel che ne consegue in termini di genesi delle principali civiltà, in contrasto con la Sintesi Turco – Islamica, base di un’ideologia politica con forti venature religiose, appoggiata dai militari dopo il colpo di stato del 1980.

È da questo humus culturale pseudo scientifico e religioso, e da una storia che si dipana dal 1920, che germoglia l’AKP di Erdoğan, che vede l’islam quale aggregante della nazione turca e non della umma araba, nell’esaltazione di un ottomanesimo che ancora si percepisce imperiale, ma con un territorio amputato dai trattati di pace.

Samuel Huntington, sostenendo che la Turchia dovrebbe rinnegare il laico Atatürk così come i russi hanno rinnegato Lenin, offre un assist ad Erdoğan che, per il centenario Repubblicano, vorrebbe che Mustafa Kemal finalmente si accomodasse nella tomba per cedergli il proscenio permettendogli di dominare lo Stato Profondo, il Derin Devlet, caratterizzato da venature kemaliste ed a lungo animato dall’opposizione fomentata dal suo vecchio alleato, ora pericoloso antagonista, Fetullah Gülen, riparato negli USA, la gola profonda che ha dato notorietà ai documenti che attestavano le attività illecite del figlio del Reìs, nonché presunto ispiratore del controverso colpo di stato del 2016, preceduto dai presunti golpe Ergenekon, Balyoz e Poyrazköy del 2008, tre eventi che, fondati su false basi, permisero l’assalto alla struttura laica delle FFAA, accusate di voler rovesciare il governo Erdoğan.

Prima conclusione: in Turchia, come ovunque, non esistono né santificazione politica né scrupoli nel mandare altri al macello. Per Erdoğan il golpe del 2016 (foto) diventa un dono di Dio, si trasforma in controgolpe, iniziano purghe staliniane che ancora oggi sfibrano l’apparato dello Stato ed annichiliscono lo spirito kemalista delle FFAA. Erdoğan diventa il patrono della Fratellanza Musulmana, non segue la più prudente linea politica estera del ministro Davutoğlu, rievoca il Misak-ı Millî, il Patto Nazionale di Atatürk, punta a diverse isole minori greche nell’Egeo, alla Tracia Balcanica, al Kurdistan siriano ed iraqeno congiungendo Aleppo, Mosul e Kirkuk, nella consapevolezza di poter smembrare due Stati (Iraq e Siria) di fatto agonizzanti, resuscita rivalità imperiali con Teheran, di cui teme il corridoio che, passando per Baghdad e Damasco, la possa portare a Beirut. Il vuoto politico determinato dalla fine sovietica e dal ripiegamento di Washington, usualmente in difficoltà nel gestire l’equilibrio di potenza, induce Ankara ad avventurismi volti a sfruttare le incertezze degli Stati Uniti, a loro volta interessati ad usare l’ariete turco.

Un aspetto poco valorizzato in Occidente, riguarda la rilevanza delle confraternite religiose; Gülen ha un interesse culturale per Said Nursi e per la sua Nur1, che entra in competizione con i Naksibendi2 che nel dopoguerra, con l’imam Kotku, diventano scuola socio-politica, ed annoverano tra i loro adepti il presidente Özal, lo stesso Erdoğan ed al Douri, vice di Saddam Hussein, artefice dell’alleanza tra ISIS, baathisti iraqeni ed ex saddamiani. Gülen punta all’organizzazione, fonda una struttura che richiama alla memoria l’Opus Dei; Erdoğan è ispirato da un ordine spirituale che propugna l’avversione per l’occidente e soprattutto la creazione di un apparato produttivo nazionale. Le strade divergono, gli attriti aumentano di pari passo con lo stravolgimento della struttura Statuale e con un depauperamento capacitivo delle FFAA tale da far riflettere la NATO circa l’affidabilità del sistema Paese turco.

I fronti su cui Erdoğan è impegnato sono molti, interni ed esterni.

L’interno, non meno infido di quelli oltre confine, riguarda la governance economica, che ha condotto il Paese dal neoliberismo ad un developmental state precluso ai non appartenenti all’Erdoğanomics, un mercato alternativo capace di sostenere la crisi degli anni’90, dove lo Stato è diventato il cliente di sé stesso; tuttavia la situazione macroeconomica e finanziaria della Turchia rimane volatile, con il denaro che, dopo aver alimentato il credito facile, è tornato verso mercati più sicuri e resi lucrativi da un rialzo dei tassi avversato dall’AKP che mira, con una svalutazione competitiva, ad un deprezzamento pilotato in grado di controllare esportazioni ed inflazione.

Sempre all’interno, Erdoğan deve sia sostenere la sfida dei vecchi compagni di partito Davutoglu, Babacan, Gul, ora transfughi dall’AKP ed accompagnati da forti defezioni da parte degli iscritti, sia la fronda del nucleo secolarista delle FFAA, che lo ha costretto sia ad affinare la strategia del divide et impera con le minoranze etniche, sia a consolidare il potere ricorrendo ad una struttura paramilitare su diversi livelli e ad una compagnia di contractors, la SADAT Inc., specializzata in procurement, analisi, arruolamenti nelle FFAA ed addestramenti convenzionali e non, diretta dall’ex generale Tanriverdi, congedato a suo tempo dall’esercito perché troppo contiguo a posizioni islamiste. Secondo i servizi israeliani, la Sadat avrebbe fornito assistenza militare e finanziaria ad Hamas, e sarebbe attiva nel Golfo, in Qatar, Libia, Sudan, Egitto, Pakistan. Il grande numero di operatori addestrati e formati nelle varie società (circa 900K) permette alla sicurezza privata di porsi quale seconda forza del Paese dopo le FFAA.

Ulteriore supporto politico è fornito dalla formazione dei Lupi Grigi dell’MHP3, a guardia del pericolo di frantumazione del Paese da parte di forze straniere ostili, ed a difesa della religione islamica quale caposaldo dell’identità nazionale e leva utile a scardinare la laicità istituzionale.

Oltre confine la Turchia ha attiva la querelle dell’accordo per la ZEE libica del GNA, che stigmatizza l’ulteriore problema di approvvigionamento energetico nell’East Med con Egitto ed Israele; il riacutizzarsi del problema di Cipro Nord; la presenza in Siria ad Idlib con l’inedita joint venture con Iran e Russia, il cui capo di Stato è sembrato l’unico, almeno formalmente, capace di imporre ad un indispettito Erdoğan tempi e regole; le rinnovate pressioni asimmetriche esercitate sulla Grecia; il contrasto alle forze curde dell’YPG4 volte ad impedire la creazione di una zona autonoma nel Rojava.

Last but not the least il COVID-19, che rievoca la Guerra (asimmetrica) senza Limiti di Qiao Ling e Wang Xiangsui, ed è oggetto di un goffo negazionismo epidemiologico funzionale all’evitamento del collasso economico.

Come visto, la Turchia ha molti fronti aperti, forse troppi, ed inevitabili interrogativi sul suo futuro; se è vero che il controllo interno rimane rigido, è altrettanto vero che cigni neri, difficoltà economiche ed evoluzioni politiche potrebbero mettere in difficoltà un establishment auspicabilmente rimpiazzabile attraverso una lenta e progressiva transizione democratica. Un cambio repentino di leadership, vista anche l’inconsistenza di un’Europa già ora sedotta ed abbandonata da Erdoğan, favorirebbe l’ascesa di elementi volti a determinare un’incontrollabile instabilità regionale, agitata da istanze nazionaliste inquadrate sotto la supervisione dell’apparato di sicurezza parallelo ora in azione.

Il fatto che Gülen sia perdente, visto il suo retroterra culturale e le non sempre lungimiranti analisi americane, non lo rende il candidato ideale alla sostituzione di Erdogan; rimangono i kemalisti, sparuto gruppo di militari sopravvissuti alle epurazioni ma indeboliti dalla decapitazione dei loro vertici.

Un’accelerazione degli eventi potrebbe essere indotta dall’azione combinata di inflazione, di un numero inaccettabile di caduti in Siria, di un’implosione dell’apparato statale determinata dall’espansione del virus; la valutazione del contesto non caldeggia soluzioni rapide, e guarda con timore alla possibile ascesa di un Manchurian Candidate eterodiretto, data l’impossibilità di contenere le successive derive politico-religiose.

1 Luce

2 Confraternita della Naqshbandiyya della corrente Khalidi

3 Partito d’Azione Nazionale

4 Unità di Protezione Popolare

Foto: presidency of the republic of Turkey