USA 2020: le sfide geopolitiche

(di Renato Scarfi)
16/11/20

Anche se non ancora accettata da Trump, appare abbastanza consolidata la vittoria di Biden - con circa il 3% dei votanti in più dell'avversario e avendo superato i 270 grandi elettori - che si prepara ai prossimi quattro anni alla guida dell’America.

Un’America divisa, arrabbiata, preoccupata dal perdurare della pandemia (che ha finora fatto migliaia di morti), indecisa se percorrere la strada di un relativo isolazionismo perseguito da Trump al grido di “America first” o se riprendere il filo del multilateralismo che le ha assicurato il sostegno di tutto l’Occidente negli ultimi 75 anni. Un’America che ha un profondo bisogno di riconciliazione, soprattutto con sé stessa e le sue contraddizioni. Un’America che rischia di essere avvelenata da azioni legali che, per quanto disperate, potrebbero alimentare le radicalizzazioni e i pericoli di spiralizzazione delle violenze. Un’America che ha un presidente uscente non riconfermato che dà l’idea di voler tirare la corda per poter condurre negoziati sotterranei al fine di ottenere un perdono presidenziale sui vari procedimenti giudiziari che lo vedono protagonista non invidiato.

Già, un presidente uscente che ha scardinato le consuetudini e il tradizionale fair play che aveva contraddistinto le competizioni politiche delle ultime decadi, con la signorile concessione della vittoria al candidato che otteneva il numero maggiore di grandi elettori e il successivo elegante invito di recarsi alla Casa Bianca per iniziare la transizione. Una dignitosa consuetudine che veniva seguita anche dalla first lady uscente nei confronti di quella entrante. Così non è stato e Trump, da vecchio giocatore vincente ma poco sportivo, che non accetta alcuna sconfitta, ha buttato tutta la faccenda in rissa lanciando accuse, come il contadino lancia le sementi sul campo, senza portare a oggi alcuna prova delle proprie affermazioni. Tant’è che alcune Corti hanno immediatamente respinto i ricorsi presentati dall’agguerrita squadra di avvocati trumpiani.

Ciò nonostante, le ultime consultazioni hanno fornito alcuni importanti spunti di riflessione. Innanzi tutto la forte partecipazione, intorno al 67%, che ha fatto comprendere come la popolazione americana non sia così sonnacchiosa e distaccata come alcuni la volevano dipingere. Certamente il merito dell’enorme mobilitazione non è stato dei due candidati, che hanno condotto la peggiore campagna elettorale che si sia vista da quando esiste la televisione.

Malgrado ciò, la partecipazione popolare è stata notevole e anche il candidato che ha perduto ha ottenuto oltre 70 milioni di voti, circa 8 milioni di voti in più di quando era stato eletto nel 2016. Un massiccio, diffuso consenso che ha dimostrato le notevoli capacità affabulatorie di Trump, che ha saputo efficacemente parlare alla pancia degli elettori stupendo molti analisti, che avevano invece pronosticato una débacle trumpiana. Si tratta di una chiara indicazione di come una parte consistente del paese continua a vedere benevolmente il populismo nazionalista, per motivi determinati dal disagio e da altri fattori interni ed esterni che hanno scosso l’America e che Trump ha saputo cogliere e sfruttare.

Una presidenza, quella di Trump che ha certamente ottenuto successi sia in politica economica che in politica estera, come la crescita degli occupati e un aumento del PIL nazionale, o come gli accordi che hanno portato Israele e alcuni Stati arabi ad avviare relazioni diplomatiche. Un altro suo successo è senza dubbio quello di non aver iniziato alcuna nuova guerra, risparmiando così l’invio di giovani su fronti di combattimento lontano da casa. Ciò, tuttavia, da molti non è stato percepito come il frutto di una precisa visione strategica di fondo ma solo come il soddisfacimento dell’impulso a fare l’egoistico interesse del suo Paese, ruolo peraltro interpretato con criteri a volte discutibili e modi spesso assai poco diplomatici. Nel suo quadriennio di presidenza Trump ha soprattutto mostrato, come affermano alcuni, tutto il suo narcisismo e autoritarismo, tutta la sua ambizione senza limiti e la sua attitudine alla falsità funzionale. Caratteristiche che prima della tornata elettorale lo hanno portato, con un’incredibile e disonesta leggerezza, a negare la validità di un’eventuale vittoria dell’avversario.

Da parte sua Biden ha saputo sapientemente recuperare i voti di alcune parti della classe lavorativa e delle classi medie istruite e moderate, voti che non erano andati alla Clinton nel 2016. Biden è poi riuscito a focalizzare il consenso delle minoranze etniche. Malgrado alcune superficiali analisi focalizzate sulla Florida, infatti, ben oltre il 70% degli ispanici lo ha votato, insieme al 90% circa degli elettori afro-americani. A questi elettori si sono aggiunti gli scontenti per una conduzione della cosa pubblica contraddistinta da eccessivi personalismi presidenziali e i preoccupati per la folle gestione della pandemia da parte di un Trump che, al riguardo, è sembrato poco incline ad ascoltare i consigli degli scienziati e ad applicare le più elementari regole del buon senso. Tra gli scontenti vanno, infine, considerati anche quegli elettori repubblicani più moderati che l’effervescenza caratteriale di Trump aveva silenziato o dimenticato tout-court.

Ciò nonostante, pur avendo ottenuto il diritto di occupare la sala ovale per i prossimi quattro anni, la futura attività politica di Biden non sarà agevole, visto che si profila la concreta possibilità di dover passare dall’approvazione di un Senato agguerrito e con una determinante maggioranza repubblicana. Le proposte legislative dovranno, quindi, contemperare diverse esigenze. In tutto ciò, la pregressa esperienza politica di Biden e la sua conoscenza dei meccanismi e degli equilibri istituzionali potranno sicuramente aiutarlo nel trovare adeguate soluzioni rispettose del ruolo di ciascun organismo.

Sul fronte interno, il nuovo presidente si troverà innanzitutto a dover riconciliare il popolo, a ritrovare un comune terreno di convivenza, obiettivo non facile vista tra le altre la frammentazione etnica e l’interesse di alcune frange suprematiste al mantenimento della tensione sociale. Vi sono poi importanti questioni con significative implicazioni sociali, come la riduzione delle diseguaglianze, il contrasto alla pandemia e l’estensione dell’assistenza sanitaria, quest’ultima tanto cara al precedente presidente Obama, ma che va a toccare sensibilità che hanno dimostrato di sapersi efficacemente opporre a un approccio che, fortunatamente, in Europa è pratica comune e diffusa.

In politica estera, la valigia diplomatica del nuovo presidente contiene delicate questioni internazionali, con profonde implicazioni sui futuri assetti geopolitici. In tale ambito, Biden ha già annunciato la propria volontà di tornare al multilateralismo. Ciò significa probabilmente un rientro nell’OMS e auspicabilmente anche nell’UNESCO, oltre che una ripresa dell’attuazione degli accordi di Parigi sul clima. Ma significa anche una ragionevole certezza che verranno escluse eventuali tentazioni di rispondere unilateralmente alle sfide globali.

Ciò, tuttavia, non deve far pensare a una revisione radicale della strategia geopolitica statunitense. Non significherà che l’America comincerà a fare quello che vogliono gli altri. Sul contrasto al degrado ambientale, per esempio, dovrà fare in modo da non incidere troppo sugli enormi interessi statunitensi in materia di utilizzo dell’energia fossile. Washington continuerà quindi a perseguire i propri interessi ma, magari, contemperando anche alcune esigenze dei partner e degli alleati, al fine di rinsaldare quello stretto rapporto transatlantico che, negli ultimi quattro anni, si era un po’ raffreddato vittima dell’assertivismo trumpiano. La vera forza degli USA, infatti, non risiede nell’economia o nella tecnologia ma nella capacità di coalizzare e mantenere vicini i propri alleati, europei in primis, concedendo l’estensione del proprio ombrello di sicurezza nucleare e ottenendo collaborazione e sostegno politico e militare, secondo le possibilità di ciascun alleato. In tale ambito, una politica estera statunitense dai toni meno esasperati e più concilianti potrebbe essere in grado di smussare le asperità che si erano create con gli alleati e potrebbe depotenziare, almeno all’inizio, le tensioni con gli avversari.

E qui si inseriscono i dossier al momento più scottanti, come i rapporti con la Russia, la Cina, l’Iran e il ruolo statunitense nel Mediterraneo, tornato un mare che ribolle tra rivendicazioni varie sui confini marittimi, controversie giuridiche, dimostrazioni muscolari, azioni in contrasto con le disposizioni dell’ONU, minaccia jihadista e dramma dell’immigrazione clandestina.

Talune di queste questioni hanno visto un deciso peggioramento negli ultimi anni anche perché l’Europa, già sorda e muta in politica estera, si è scoperta sempre più cieca strategicamente, bloccata nelle sue iniziative da un eccesso di cinismo e di interessi nazionali, cui si è aggiunta la grave crisi economica causata dalla pandemia. Esattamente il contrario della visione che aveva ispirato i padri fondatori. Il ruolo mediatore e stabilizzatore di un’America che abbia nuovamente voglia di impegnarsi in questo ruolo appare pertanto indispensabile, anche perché un’Europa meno litigiosa può fare molto comodo a un’America che vede crescere in numero e potenza i possibili sfidanti alla governance mondiale, a partire da Cina e Russia.

È quindi prevedibile che le prime visite all’estero del suo mandato verranno fatte proprio nelle principali capitali europee, dove auspicabilmente potrà convincersi che la partita mondiale potrà essere giocata più efficacemente se i principali alleati europei saranno inseriti in prima squadra, e non tenuti in panchina o, peggio, non convocati. In questo caso, sarebbe un importante segnale dell’inversione della tendenza rispetto a Trump, che non si è mai preoccupato di mascherare il proprio disprezzo per l’istituzione europea, ostentando il proprio desiderio di minarne la coesione, talvolta riuscendoci. In tale ambito il Regno Unito, vigorosamente sostenuto da Trump nella sua corsa alla Brexit “dura”, potrebbe ora trovarsi nella necessità di ammorbidire la proprio posizione e di negoziare una Brexit più “morbida” e condivisa con le istituzioni UE.

Tuttavia, alcune differenze di vedute tra le due sponde dell’Atlantico, relative ad alcuni aspetti economici, in particolare con taluni alleati europei, rimarranno sul tappeto (i surplus commerciali, gli aiuti di stato, certe imposizioni fiscali, la tassazione del web) e dovranno necessariamente essere discusse con apertura mentale e disponibilità di tutte le parti in causa, per trovare una soluzione che possa venire incontro alle rispettive esigenze. Una sinergia Europa-USA su questi fronti è realisticamente perseguibile.

Sotto il profilo politico-militare anche Biden, convinto atlantista, tornerà sulla questione del livello di partecipazione degli alleati alle spese della NATO, spinoso dossier già portato avanti dai suoi predecessori. E qui gli europei dovranno trovare una sintesi, nonostante tutte le intuibili difficoltà, per contemperare i problemi di bilancio con una maggiore integrazione degli assetti, delle strutture di Comando, delle acquisizioni del materiale di armamento, della rete delle industrie per la difesa. Senza concreti passi avanti in questa direzione, il semplice aumento delle spese per la difesa comporterebbe effetti risibili sul piano delle reali capacità operative. Si può certamente accrescere la capacità dell’Europa di essere “fornitore” di sicurezza, senza per questo pregiudicare l’insostituibile copertura della NATO, attraverso un approccio che faccia perno sul concetto della indivisibilità della difesa sia all’interno del perimetro europeo che nel quadro del rapporto transatlantico. A guidare nel travagliato processo decisionale dovrebbe essere la consapevolezza che il rapporto transatlantico deve restare il pilastro fondamentale della sicurezza occidentale, così come è indispensabile un approccio che eviti la contrapposizione tra subordinazione e autonomia confrontativa.

Per quanto riguarda l’area geopolitica che tocca da vicino i nostri interessi, il Mediterraneo, vedremo come la nuova Amministrazione si comporterà con la Turchia, che nel corso degli ultimi tre anni ha accentuato la sua politica espansionistica e destabilizzante nell’area centrale e orientale, ma che in Trump aveva trovato una morbida sponda. Un comportamento, quello di Erdoğan, che ha fatto sorgere molti dubbi circa la compatibilità con l’appartenenza di Ankara alla NATO (vedi articoli). Ora Washington potrebbe auspicabilmente tentare di fermare l’aggressiva deriva verso oriente di Ankara e riattirarla nell’orbita transatlantica, attraverso un opportuno dosaggio di diplomazia e di deterrenza.

In Medio Oriente la nuova Amministrazione potrà ripartire dai risultati raggiunti da Trump e della ritrovata sintonia con il mondo sunnita, che potrebbe rappresentare un trampolino di lancio per nuove iniziative e proposte tendenti a trovare una soluzione all’annoso problema israelo-palestinese.

Per quanto riguarda l’Iran, è prevedibile che Biden possa cercare di recuperare, con tutti i distinguo del caso, il rapporto che si era instaurato tra il regime degli ayatollah e l’amministrazione Obama, che aveva portato nel 2015 alla stipula dell’accordo sul controllo del nucleare di Teheran, prima del criticato ritiro da parte dell’attuale inquilino della Casa Bianca. In tale ambito, potrebbero giocare un ruolo frenante la citata rinnovata sintonia con il mondo sunnita, da sempre contrapposto al mondo sciita, e la profonda diffidenza dei cittadini statunitensi nei confronti dell’Iran. Ciò nonostante, appare indispensabile avviare la ricerca di nuove e distensive relazioni, di cui beneficerebbero anche tutti i Paesi che si affacciano sul Golfo Persico, altra area fondamentale per i commerci mondiali. Anche in questo caso sarebbe auspicabile un coinvolgimento di quei Paesi europei, come l’Italia, che hanno storicamente dimostrato la loro capacità di dialogo politico e commerciale con quel grande Paese. Capacità che potrebbe risultare utile per stemperare le tendenze più oltranziste e conservatrici della dirigenza iraniana, fornendo all’attuale presidente Rouhani – pur sempre un riformista, con tutte le sfumature del caso - gli strumenti per incamminarsi sul lento percorso di un progressivo recupero della reciproca fiducia e auspicabilmente di qualche timida apertura democratica.

Con la Cina e la Russia, membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Biden potrebbe provare a usare i dossier cari all’ambito onusiano (tutela dell’ambiente, contrasto al riscaldamento globale e ai cambiamenti climatici, contrasto alla fame e alla diffusione delle malattie), per tentare di trovare delle convergenze in grado di costruire un ambiente di confidence building sui gradi temi mondiali e su un ragionevole sviluppo delle relazioni tra i Paesi dell’Indo-Pacifico. Un percorso certamente difficile, dopo la contrapposizione muscolare della passata Amministrazione, che potrebbe essere utile per affrontare con un nuovo spirito gli spinosi argomenti relativi al controllo degli armamenti e alla proliferazione delle armi nucleari.

Con la Cina, in particolare, data la prevalente percezione dei cittadini americani di un avversario, per alcuni aspetti, ancor più agguerrito della ex-Unione Sovietica, la consolidata capacità americana di saper costruire coalizioni e alleanze potrebbe prevedibilmente essere impiegata per una sorta di azione di contenimento strategico della politica cinese, in particolare nel Mar Cinese Meridionale (vedi articolo), per mezzo dello sviluppo di più strette relazioni con quei Paesi che, più di altri, ne temono l’espansionismo come Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. In quest’ottica, è anche possibile che l’implicito patto di protezione di Taiwan possa trovare una qualche forma di proclamazione ufficiale, mentre l’annunciata rinvigorita collaborazione politico-marittima con l’India assume un significato del tutto nuovo, proprio in chiave di bilanciamento sul teatro Indo-Pacifico. Tuttavia, il ventaglio di motivi di contenzioso tra Washington e Pechino è talmente ampio e importante che non è prevedibile a breve un significativo ammorbidimento della postura statunitense ma, anzi, appare credibile che le dispute possano anche assumere contorni diversi dal metodo dazi-sanzioni. Molto dipenderà anche dalle iniziative che la Cina metterà in atto.

Per questi motivi e per il fatto che Pechino esercita uno storico stretto controllo su Pyongyang, le diatribe nucleari con la Corea del Nord assumono una valenza e una magnitudine alquanto relativa.

Per quanto attiene alla Russia, che non ha mai digerito la definizione di potenza regionale donatale da Obama, dopo l’ambiguità dei rapporti tra Trump e Putin, Biden sarà chiamato a ricucire le relazioni con Mosca, magari partendo dai colloqui per l’estensione de trattato New Start1 (STrategic Arm Reduction Threaty), previsti immediatamente dopo il suo insediamento alla Casa Bianca. Un avvicinamento tra le due capitali potrebbe tornare utile agli americani anche in chiave del citato contenimento della Cina sul Pacifico.

In sostanza, pur essendoci degli imprescindibili aspetti di continuità nella politica estera statunitense, con l’insediamento di Biden alla Casa Bianca è prevedibile che si possa aprire una stagione nuova nella conduzione delle relazioni internazionali, caratterizzate da un significativo cambio di stile e di modi, da un maggiore equilibrio nei rapporti con gli alleati storici di Washington e dall’inizio di una fase più dinamica nelle relazioni con i principali interlocutori. In tale ambito sarà indispensabile che l’Europa (e l’Italia) siano politicamente pronti a fare la propria parte.

1 Firmati a Praga nel 2010, hanno sostituito tutti i precedenti accordi tra Washington e Mosca in tema di riduzione degli armamenti nucleari.

Foto: U.S. Navy / U.S. Air National Guard / MoD People's Republic of China