Il recente annuncio1 del presidente Trump di ritiro dal trattato INF (Intermediate Range Nuclear Force Treaty) di mutua limitazione del materiale missilistico apre un ulteriore elemento di incertezza nei rapporti già tesi tra USA e Russia.
Il trattato risale al 1987, firmato dall’allora presidente Ronald Reagan e dal capo dell’Unione Sovietica Michail Gorbaciov, ed è annoverato come uno dei momenti più significativi che hanno portato alla fine della Guerra Fredda. Esso limita il numero dei vettori missilistici intermedi (quelli con gittata tra 500 km a 5400 km) noti anche come “euro missili”, che tanta preoccupazione avevano destato tra gli alleati europei, preoccupati di esserne facili bersagli.
L’accordo fu un successo, e circa 2.700 fra missili Pershing americani e SS-20 sovietici furono distrutti a seguito della sua firma.
Le ultime ultime dichiarazioni di Trump non hanno però stupito più di tanto gli osservatori attenti.
Era da tempo infatti, - aveva iniziato Obama nel 2014 -, che gli USA accusavano la Russia di violare sistematicamente il trattato con lo sviluppo di missili “proibiti”.
Non ha pertanto sorpreso la dichiarazione di Trump, del 20 ottobre scorso, che “la Russia da molti anni viola l’accordo” e che “solo noi abbiamo onorato il trattato, ed ora è giunto il momento di dire basta e di ritirarsi dall’accordo”.
L’amministrazione americana non è sola nel denunciare le attività di Mosca. Anche il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, all’inizio di questo mese si era detto preoccupato per “la mancanza di rispetto che la Russia continua ad avere nei confronti degli impegni che ha sottoscritto, come il trattato IMF”. Un trattato che disciplina, a suo dire, una categoria di armamenti “cruciale” per la sicurezza del continente europeo, che ora versa in pericolo “a causa delle iniziative di Mosca”.
Stoltenberg si riferiva anche al nuovo sistema missilistico denominato 9M7292, che Mosca non ha mai smentito di avere nel proprio arsenale.
Se da parte degli alleati NATO, soprattutto quelli nordici, il timore è legato alla possibilità di diventare nuovamente facile bersaglio, la rinnovata preoccupazione statunitense, più che allo scacchiere europeo è da ricondurre al quadrante del Pacifico in cui è in corso da tempo un’acerrima competizione con Pechino, e dove un cane sciolto come il regime nucleare di Pyongyang, ancorché recentemente collaborativo, introduce un grande fattore di insicurezza.
In questa ottica, il ritiro dall’accordo IMF annunciato da Trump offre a Washington la possibilità di schierare in Asia (in Giappone e in Corea del sud, ad esempio) sistemi missilistici in grado di bilanciare la proliferazione cinese (e quella nord coreana), riequilibrando il livello di deterrenza tra le parti.
Quella di compensare la forze nella regione indo-pacifica, d’altronde, è una esigenza primaria per Washington. L’esistenza di un trattato tra USA e Russia non ha impedito infatti a Pechino, in tutti questi anni, di sviluppare un importante programma di acquisizione di vettori strategici.
È il caso del missile intercontinentale DF-413 (foto), in grado di colpire ogni angolo del territorio USA, o del bombardiere stealth subsonico H204 che può sganciare 16 bombe nucleari da 2400 libre a 8.500 km di distanza (secondo alcuni a 12.000 km).
Ma non solo di vettori si tratta. Nel campo degli armamenti non convenzionali Pechino si è dotata in questi anni di un arsenale di tutto rispetto, e continua a portare avanti una politica di ricerca che desta grande preoccupazione negli Stati Uniti.
Da settembre 2014 al dicembre 2017, la Cina ha concluso circa 200 esperimenti nucleari, stando a quanto riportato da South China Morning Post5 che cita a sua volta un documento dell’Accademia Cinese di Ingegneria Fisica, contro i 50 test condotti dagli USA nel periodo 2012-2017 (dati del Lawrence Livermore National Laboratory).
In altre parole, mentre in tutto questo tempo Pechino, libera da vicoli di trattato, continuava a sviluppare e inserire in linea sistemi d’arma convenzionali e non, Washington si sarebbe rigidamente attenuta alle limitazioni dell’IMF che la legavano alla Russia, permettendo il crearsi di uno squilibrio cui ora vuole porre rimedio.
Il ritiro dal trattato IMF va quindi inquadrato in tale ottica, ed è strettamente legato alla recente offensiva di Trump che ha portato all’imposizione di dazi sulle merci cinesi per oltre 200 miliardi di dollari, con la quale, sfruttando l’enorme surplus di Pechino, si è di fatto colpito il programma di sviluppo tecnologico denominato “Made in China 2025”, limitandone fortemente la produzione e le collaborazioni con l’esterno in tutti i campi ad alto contenuto tecnologico.
L’iniziativa di Trump è infine da porre in sistema con le operazioni navali USA nel Mar Cinese Orientale e Meridionale tese formalmente ad affermare la libertà di navigazione nelle sue acque internazionali, ma soprattutto a contrastare l'espansionismo militare di Pechino nel “suo mare interno”.
1https://edition.cnn.com/2018/10/20/politics/donald-trump-us-arms-agreeme...
2https://nationalinterest.org/blog/the-buzz/novator-9m729-the-russian-mis...
3https://www.janes.com/article/80877/china-moves-closer-to-commissioning-...
4https://www.scmp.com/news/china/military/article/2169472/why-new-h-20-su...
5https://www.scmp.com/news/china/society/article/2147304/china-steps-pace...
(foto: Cremlino / Nato / Twitter)