I recenti disordini a Hong Kong (mentre scriviamo circa 300 manifestanti arrestati tra cui diversi minorenni) sono l’ultimo atto di un contrasto tutto interno all’impero cinese, mosso dalla necessità che ha Pechino di consolidare il suo potere interno e arginare il dissenso.
In passato, a portare nelle piazze della città i manifestanti della ex colonia britannica aveva contribuito il timore di perdere le garanzie democratiche di cui ancora (parzialmente) gode.
Per questo, si erano mobilitate nel 2014 le migliaia di manifestanti che, armati di ombrelli - (da cui prese il nome il movimento di protesta) -, occuparono per 79 giorni la città.
A causare la rivolta ora in corso è invece l’approvazione, da parte del congresso del popolo di Pechino, di una mozione sulla “sicurezza nazionale della Cina”, volta a contrastare “atti di sovversione, secessione, tradimento e interferenze di potenze straniere”, che apre alla possibilità di costituire nella ex colonia apposite “agenzie di sicurezza” per contrastare minacce all’ordine interno.
Una legge questa, che non prevede la ratifica del parlamento di Hong Kong, e che pertanto, in un colpo solo, cancella lo status speciale della città, riaffermandone con un tratto di penna la contiguità politica e territoriale.
Le proteste di questi giorni sono anche rivolte al “parlamentino” e al governatore della città, che nonostante l’emergenza pandemica e le non poche tensioni sociali, hanno pensato di inserire nell’ordine dei lavori la discussione della legge che istituisce il reato di oltraggio all’inno nazionale (votata da Pechino nel 2017 e recepita da Macao nel 2019).
Con l’approvazione di queste due misure, la città diventerà pertanto, de iure e de facto, simile alle altre province cinesi, con buona pace del modello “uno stato due sistemi” alla base dell’accordo del 1984 tra Margaret Thatcher e Deng Xiaoping, da cui era disceso il trattato di “restituzione” del 1997.
Come dicevamo, è palese la politica cinese di consolidamento del potere centrale anche in quelle realtà, come Taiwan e Hong Kong, tradizionalmente costituenti una spina nel fianco.
Qualsiasi super potenza in ascesa farebbe lo stesso, nell’ambito degli strumenti normativi e di azione concessigli dal rispettivo ordinamento politico e istituzionale.
Così come scontata è stata la reazione degli USA, che con le dichiarazioni del segretario di stato Mike Pompeo (“Hong Kong ha cessato di essere autonoma dalla Cina”) hanno annunciato la fine del trattamento commerciale privilegiato che viene accordato alla città da prima del 1997.
Anche la mite Unione Europea, dal canto suo, ha sorprendentemente battuto un colpo nella direzione della condanna incondizionata della repressione attuata da Pechino, spinta anche dalla opportunità di togliere ai singoli governi l’impaccio di una presa di posizione individuale, che metterebbe a repentaglio gli interessi economici in gioco.
Sembra allora che le proteste dei cittadini di Hong Kong abbiano riportato le lancette al tempo in cui l’Occidente si moveva in modo coeso e coordinato nei confronti di Pechino, con tradizionali condanne ai metodi coercitivi del regime comunista e accorati appelli al rispetto delle libertà fondamentali.
Stride però il silenzio di chi, dell’Occidente è, o vorrebbe essere, se non quella religiosa, almeno la guida morale.
Mi riferisco allo Stato del Vaticano, che dall’inizio delle ultime proteste nella ex colonia non ha pronunciato alcun messaggio di riprovazione per i diritti violati e tantomeno inviti alla rappacificazione.
Una tale postura costituisce da tempo la prassi dei rapporti con Pechino, sin da quando Bergoglio ha dato impulso alla normalizzazione delle relazioni diplomatiche interrotte dal 1951, nel cui ambito si colloca l’ultimo incontro1, lo scorso febbraio, tra il segretario dei rapporti con gli stati, l’arcivescovo Paul Gallagher, e il ministro degli esteri Wang Yi, a margine della conferenza per la sicurezza di Monaco.
Un incontro, sembrerebbe, fortemente voluto dal papa per consolidare la ripresa dei rapporti bilaterali, che hanno già prodotto un bozza di accordo (2018), che tratta anche il tema della ordinazione dei vescovi.
Era da tempo che l’accorta diplomazia vaticana lavorava con la controparte cinese: in gioco da una parte la possibilità di ristabilire normali canali di comunicazione al più alto livello con la più potente e organizzata guida spirituale del mondo (che un player con aspirazioni globali non può non avere), dall’altra un immenso bacino di potenziali fedeli.
Oggi i cattolici cinesi sono circa dieci milioni, suddivisi tra i seguaci della Chiesa patriottica (Chinese Patriotic Catholic Association) riconosciuta dallo Stato, al quale è devoluta l’ultima parola sulla nomina dei vescovi; e quella "clandestina", fedele esclusivamente al vescovo di Roma.
La bozza di accordo del 2018 permetterebbe di superare il problema delle nomine vescovili, facendoli nominare dal papa nell’ambito però di una cerchia di soggetti sui quali Pechino ha preventivamente espresso il nulla osta. Vescovi graditi, insomma.
Una rivoluzione, anche di natura canonica, che ha sortito forti resistenze in seno alla componente conservatrice vaticana, e l’opposizione di quella parte di fedeli cinesi “clandestini”, molti dei quali tutt’oggi sperimentano soprusi e persecuzioni.
Tra i maggiori critici dell’accordo, il vescovo emerito di Hong Kong, cardinale Joseph Zen, che non solo dalle colonne del New York Time, ma anche, e con maggiore assiduità, da quelle del suo blog, ha più volte criticato il segretario di stato, card. Pietro Parolin, di “non informare adeguatamente il papa sulla reale situazione dei cattolici cinesi” (“my personal2 impression is that Parolin manipulates the Pope, at least in things regarding the Church in China).
Tra le accuse dell’alto prelato, anche quelle, pesanti, rivolte al documento “Linee guida pastorali” - emanato lo scorso anno dalla Curia romana per indicare ai preti cinesi doveri e responsabilità verso il governo centrale - giudicato da Zen, “blatantly evil, immoral” in quanto “legittimerebbe l’esistenza di una Chiesa cattolica cinese indipendente, scismatica”, sganciata dalla supervisione papale.
Voci critiche si sono alzate anche da parte della Chiesa patriottica, tra cui, quelle del vescovo3, John Fang Xingyao, che nel corso di una conferenza dedicata al tema delle religioni in Cina, il 26 novembre scorso, ha sostenuto che “l’amore per la Patria deve essere più grande di quello per la Chiesa e la legge canonica viene dopo quella del paese”.
Senza ombra di dubbio, una posizione che da il senso di una Chiesa “nazionale”, lontana dalla ecclesia petrina, ancillare, la cui visione di un magistero universalistico pare difficile da dimostrare.
Ed è con “questa” Chiesa che Bergoglio ha deciso di scendere a patti, sacrificando i tanti fedeli che in tutti questi anni hanno coltivato e nutrito il legame col soglio di Pietro nella più totale clandestinità e al prezzo della loro stessa libertà.
Il pontefice ha deciso di sacrificarvi pure i rapporti con la Repubblica di Cina dell’isola di Taiwan, che in Vaticano ha una delle poche ambasciate all’estero (son pochi gli stati che la riconoscono ufficialmente e sempre di più quelli che fanno finta di non conoscerla).
Si pensi solo che le foto4 che ritraggono il papa mentre stringe la mano al vicepresidente dello stato di Formosa, durante un ricevimento in Vaticano lo scorso 10 novembre, sono misteriosamente “sparite” dal sito che normalmente le “vende” ai media. Un provvedimento per non indispettire "l’altro" interlocutore?
Il tempo ci dirà se la diplomazia del Vaticano saprà trovare un giusto punto di equilibrio tra “real politik” e vocazione universale.
Il sentiero percorso dal card. Parolin appare insidioso come non mai e rischia di spingere la Chiesa al livello delle altre realtà statuali, quando crea la percezione della prevalenza della ragione di stato su quei fondamenti valoriali e ideali del messaggio cristiano cattolico di cui la Chiesa è unico araldo.
Dal giusto equilibrio poc’anzi accennato, discenderà la capacità della Chiesa universale di fornire risposte coerenti con la sua missione.
Dalle risposte che saprà dare sulla integrità politica di Taiwan, ai milioni di fedeli cinesi perseguitati da governo di Pechino e alle istanze di un Tibet libero e indipendente, la Chiesa di Roma si gioca forse la partita più importante della sua sua storia moderna.
4 https://www.ilmessaggero.it/Vaticano/cina_Vaticano_papa_francesco_taiwan...
Foto: Korean Culture and Information Service / Vaticano / web