Nel passato recente ci siamo spesse volte occupati degli esiti destabilizzanti che la politica estera della Repubblica di Turchia sta avendo sia nell'area Mediorientale sia nella Penisola Balcanica e nel Mediterraneo Orientale e Centrale. Tuttavia, fino ad oggi ben pochi hanno prestato attenzione ad un altro fattore di rischio collegato con la Turchia, quello economico-finanziario.
Al giorno d'oggi, infatti, il mondo della finanza turco è attraversato da uno “spettro” che potrebbe rivelarsi per l'economia del Paese anatolico persino più micidiale di quello dei famigerati “mutui subprime” che 12 anni fa mandarono a gambe all'aria prima l'economia degli USA e poi del resto del mondo. Lo spettro che sta lentamente ma inesorabilmente erodendo dall'interno l'economia turca, nonché convitato di pietra che potrebbe contribuire a far affondare il regime di Recep Tayyip Erdoğan è quello degli “assegni postdatati”.
Ma di che cosa stiamo parlando esattamente? In generale, l'assegno postdatato è un metodo di pagamento in relazione al quale un agente economico vende un bene o un servizio ad un altro agente pagandolo con il classico assegno cartaceo che tutti conoscono, ma con la particolarità che la data figurante sul documento di credito non è quella odierna bensì una data futura che le parti fisseranno a piacimento tra uno, due, tre mesi, oppure anche tra un anno e più. In tale situazione, il venditore conserva in cassa il suddetto assegno per poterlo poi incassare in banca una volta superata la data specificata nel documento di credito stesso.
In Italia ed in altri Paesi, la pratica degli assegni postdatati è illegale, fondamentalmente per due ragioni:
- la prima e più banale: nei Paesi dove è prevista un'imposta di bollo (come l’Italia), utilizzare assegni postdatati comporta un’evasione fiscale. Piccola, sicuramente, ma pur sempre un'evasione. Per tale ragione qui da noi si è invece dato via libera alla disciplina delle cambiali, che altro non sono che la versione “legale” (e difatti soggetta ad imposta di bollo) degli assegni postdatati;
- la seconda e più importante: la pratica degli assegni postdatati altro non è che una forma di debito privato esente da interessi e difficilmente assoggettabile alla supervisione macroprudenziale tanto da parte delle autorità monetarie, quanto da parte delle autorità di vigilanza del settore bancario. Di conseguenza, essa comporta a lungo andare creazione e messa in circolo di moneta, con conseguente aumento di debito privato registrato però nei bilanci delle aziende alla voce “debiti verso fornitori” e non alla voce “debiti finanziari”, e che finisce dunque per sfuggire a qualsiasi controllo sia da parte delle autorità bancarie sia da parte di quelle monetarie.
In altri Paesi occidentali, come ad esempio gli Stati Uniti o il Regno Unito, si è deciso di risolvere la seconda problematica appena descritta in maniera diversa: l’assegno postdatato è perfettamente legale, ma costituisce un titolo che può essere tranquillamente negoziato in banca anche prima della data indicata, permettendo quindi al venditore di incassare i suoi soldi subito, ed al compratore di avere un debito non nei confronti del venditore, bensì nei confronti del sistema finanziario. A questo modo il debito è perfettamente “monitorabile” dalle autorità preposte.
Gli assegni postdatati sono invece perfettamente legali nei Paesi del Medio Oriente, in primo luogo nei 6 cosiddetti “Paesi del Golfo”. Per esempio, a Dubai, quando un soggetto privato deve affittare un appartamento non è necessario che fornisca, come qua in Europa, un deposito, una caparra, una garanzia affitti, ecc... ma, molto semplicemente, qualora il soggetto affitti casa per, diciamo, 12 mesi, all'atto della firma del contratto è uso comune che vengano contestualmente firmati e scambiati anche i 12 assegni, uno per ciascuna mensilità futura, così che il locatore abbia fin da subito la garanzia di poter incassare ciascuna delle 12 rate alla data stabilita.
Limitatamente al contesto dei “Paesi del Golfo”, il sistema degli assegni postdatati funziona ed essi non costituiscono un rischio serio per l'economia, almeno nel breve termine. Le ragioni di questa particolarità sono essenzialmente tre:
- primo: in questi paesi non esistono imposte di bollo per questo tipo di titoli, dunque il problema dell'evasione fiscale non si pone;
- secondo: tutte le valute dei “Paesi del Golfo” sono legate al dollaro americano a cambio fisso e hanno tassi d'interesse stabili e molto bassi. Ciò comporta che non ci siano grossi problemi di costo della moneta. Possiamo essere quindi ragionevolmente sicuri che, per esempio, negli Emirati Arabi Uniti, in un arco temporale di un anno, 100 dirham avranno ancora più o meno lo stesso potere d’acquisto di oggi, perciò pagare con un assegno postdatato non costituisce un azzardo, né per il venditore né per il compratore. Questo significa che fino a quando questa situazione di stabilità valutaria permane, le banche locali non avranno mai grossi rischi di vedersi arrivare volumi abnormi ed inaspettati di assegni pagabili a vista;
- terzo e più importante di tutti: le valute dei “Paesi del Golfo” sono soggette a limitazioni calibrate della propria convertibilità internazionale. Ad esempio, gli Emirati Arabi Uniti non rendono possibile il mantenimento di un conto di deposito fruttifero all’esterno del Paese. Ciò implica che gli assegni postdatati in valuta locale rimangano per così dire “confinati” all'interno dei loro Paesi venendo scambiati solamente tra compratori e venditori locali. In questo modo il sistema chiuso “a campana di vetro” può funzionare.
Il sistema degli assegni postdatati è ampiamente utilizzato anche nella Repubblica Islamica dell'Iran che pure è un Paese assai diverso dai sei “Paesi del Golfo”. Tuttavia, neppure qui esso crea al momento particolari problemi; anzi, si può certamente dire che esso sia il minore dei problemi dell’economia iraniana in questo momento. Questo Paese, infatti, è sottoposto a sanzioni economiche internazionali molto stringenti le quali creano una sorta di “barriera economica e finanziaria” attorno allo stato persiano. Una conseguenza del regime sanzionatorio è che le banche iraniane non hanno alcun tipo di collegamento con i circuiti di pagamento internazionali e, sebbene gli assegni postdatati circolino liberamente, lo fanno solamente all'interno del Paese, in un sistema che in questo modo “si calmiera da sé”.
Assolutamente diversa (e forse unica al mondo) è invece la situazione della Repubblica di Turchia. Lo stato anatolico è, sul terreno degli assegni postdatati, uno caso ibrido caratterizzato da un mix molto potente e delicato poiché da un lato, esattamente come i “Paesi del Golfo” e l'Iran, consente la pratica degli assegni postdatati tra un venditore ed un compratore; dall’altro, la valuta locale (lira turca, o Türk lirası) è liberamente convertibile nei mercati valutari internazionali.
Inoltre, la Turchia ha elevato su scala cubica il sistema permettendo agli assegni postdatati di essere utilizzati anche nei confronti degli eventuali sub fornitori. Cosa significa tutto questo? In parole povere ed accessibili anche ai non addetti ai lavori, se un compratore “A” acquista un tavolo dall’artigiano “B”, all'atto del pagamento “A” può decidere di saldare il conto mediante pagamento immediato oppure ricorrendo all'emissione di un assegno posdatato. Se però, a sua volta, l’artigiano “B” per poter produrre il tavolo deve acquistare legno dal falegname “C”, egli può a sua volta scegliere di saldare tale debito in tre modi: 1) mediante normale pagamento, 2) emettendo un proprio assegno postdatato oppure addirittura 3) cedendo a “C” l'assegno postdatato consegnatogli da “A”: si ha quindi un sistema nel quale gli assegni postdatati costituiscono una vera e propria “moneta ombra” che crea debito privato fra i soggetti economici in maniera del tutto parallela rispetto al sistema bancario.
Aggiungiamo poi che, nel corso di tutta la Storia della Turchia repubblicana, la lira turca è stata caratterizzata da una notevole instabilità e, specialmente a partire dal 1970, il valore della valuta turca ha iniziato a deprezzarsi paurosamente in relazione al dollaro. A titolo esemplificativo basterà ricordare che nel biennio 1995-1996 ed ancora in tutto il periodo tra il 1999 ed il 2004, la lira turca occupò il primo posto nella classifica del “Guinness dei primati” delle valute di minor valore al mondo, un risultato davvero poco invidiabile (nel 1995, 1 dollaro americano valeva 43.000 lire turche mentre nel 2005 il suddetto rapporto si era deteriorato alla “fantastica” cifra di 1 a 1.350.000!).
A partire dal 2002, con l'ascesa al potere di Abdullah Gül prima e di Recep Tayyip Erdoğan poi, il paese si è progressivamente risollevato dalla crisi finanziaria del 2000-2001, la lira turca è stata riformata e l'economia del Paese ha vissuto una lunga fase di espansione. In tale contesto, c'è stata progressivamente una grande espansione del fenomeno degli assegni postdatati con i quali le aziende esportatrici pagavano i loro fornitori che a loro volta pagavano i sub fornitori e tutto questo ha comportato una colossale creazione di moneta e di debito privato che è sfuggito a qualunque rendicontazione nei bilanci delle aziende e di conseguenza anche a qualunque controllo da parte non solo delle autorità bancarie e delle loro centrali rischi, ma anche delle autorità monetarie centrali dello stato.
Come è stato possibile che accadesse tutto questo? Il nodo gordiano dell'intera vicenda sta nel fatto che, se gli assegni vengono utilizzati come garanzia di pagamento, e dunque non sempre incassati, si capisce come, da oramai tantissimi anni, le banche turche abbiano potuto stampare ed emettere una quantità esagerata di libretti degli assegni e distribuirli con liberalità ai propri clienti perché tanto costoro avrebbero firmato assegni che comunque in banca non rientravano quasi mai, e comunque non subito.
Fino a quando l'economia della cosiddetta “tigre anatolica” ha continuato a vivere una fase di espansione, cioè dal 2002 fino al 2015-2016, e considerando che la pratica degli assegni postdatati era ed è perfettamente legale, la situazione andava bene a tutti quanti e nessuno se ne preoccupava. Il problema è che nel frattempo tutto questo processo portava ovviamente ad una svalutazione periodica e costante della lira turca nei confronti delle principali valute mondiali, in particolare il dollaro e l'euro (non dimentichiamo che l'Europa è la principale area di destinazione delle esportazioni turche). Non che la svalutazione fosse un male in sé, intendiamoci! Quando infatti, nel decennio 2005-2015 la svalutazione della lira turca era periodica e costante ma contenuta entro certi limiti, tutto andava bene. Anzi la cosa era persino auspicata perché questa svalutazione andava, anno dopo anno, a garantire il mantenimento della competitività dell'economia turca, specialmente per quanto riguarda le esportazioni manifatturiere.
Purtroppo per i Turchi, però, a partire dal 2016, molte cose si sono deteriorate. Innanzitutto c'è stato il tentativo di colpo di stato del 15 luglio 2016 che ha sollevato numerosi punti di domanda riguardo alla stabilità del Paese. Inoltre, a partire dallo stesso anno si è assistito ad un generale rallentamento delle economie europee che ha provocato non tanto una diminuzione delle esportazioni turche quanto, specialmente nei settori manifatturieri nei quali la Turchia è forte, un allungamento dei tempi dei pagamenti (e dunque verosimilmente ad un utilizzo sempre più ampio di assegni postdatati con scadenze lunghissime, anche fino a 2 anni).
Infine, nel triennio 2017-2018-2019 la forte espansione dell’economia americana ha provocato una modesta stretta monetaria da parte della Federal Reserve, e soprattutto una aspettativa da parte dei mercati di ulteriori strette nel futuro. La storia ci insegna che quando il mercato si convince che la FED aumenterà i tassi di interesse sul dollaro in una congiuntura di forte espansione dell’economia americana, non ce n’è per nessuno: il biglietto verde si rafforza mentre le valute dei Paesi emergenti subiscono una svalutazione. La lira turca (anche a causa delle due motivazioni indicate nel paragrafo precedente) non poteva fare eccezione e dunque la propria traiettoria di svalutazione costante e periodica ha subito una brusca accelerazione.
Consultando i dati a disposizione dell'Associazione delle Banche Turche (Türkiye Bankalar Birliği), aggiornati al 31 dicembre 2017, si riporta il dato totale dei pagamenti processati durante quell’anno in Turchia pari a 784 miliardi di lire turche che, al cambio di quella data assommavano a circa 208 miliardi di dollari. E’ ragionevole pensare che buona parte di questi assegni siano stati originariamente emessi postdatati. Considerando che il volume totale delle esportazioni per tutto il 2017 dell'economia turca era stato di circa 150 miliardi di dollari, ne consegue che già a fine 2017 la montagna di assegni postdatati che sovrasta l’economica turca aveva già ampiamente superato il valore totale delle esportazioni.
Dato che da allora la svalutazione della lira turca non ha fatto altro che accelerare, chi scrive ritiene ragionevole pensare che, ad un certo punto, le alte sfere dello stato turco abbiano cominciato a preoccuparsi in merito a questa drammatica svalutazione della lira turca e abbiano iniziato ad esaminare i possibili rimedi alla luce delle peculiarità appena descritte.
Come è noto, dall'analisi delle politiche monetarie portate avanti in tutti i Paesi del mondo, in particolare in quelli emergenti, il metodo classico che si utilizza per evitare l'eccessiva svalutazione della moneta di un Paese è quello di fare ricorso all'aumento dei tassi di interesse. E infatti hanno cominciato a moltiplicarsi le pressioni, provenienti sia da certi ambienti della Banca Centrale Turca che del mondo politico, soprattutto quelli orbitanti attorno alla stella dell'ex-ministro dell'economia Ali Babacan, principale architetto del “miracolo anatolico” degli anni 2000, i quali premevano affinché le autorità prendessero una decisione “economicamente ortodossa” in tal senso.
Tuttavia, è stato proprio in questo momento che lo stesso presidente-sultano Erdoğan (che in Turchia rappresenta il classico “punto in cui termina lo scaricabarile”) è entrato a gamba tesa nell'intero processo decisionale. Innanzitutto l'uomo forte di Ankara negli ultimi anni ha imposto una serie di riforme che hanno fondamentalmente cancellato l'indipendenza decisionale della Banca Centrale Turca e l'ha riportata sotto il controllo del governo (leggi: di sé stesso) ed è persino arrivato ai ferri corti con lo stesso Ali Babacan nonostante egli avesse svolto un ruolo fondamentale nello sviluppo economico registrato dalla Turchia negli anni recenti. Inoltre, in base ad una “teoria economica” da lui stesso inventata e che non ha alcuna base scientifica in nessun paese del mondo, Erdoğan ha posto il veto su qualsiasi possibilità di innalzamento dei tassi di interesse perché, a suo dire: “l'aumento dei tassi di interesse genera inflazione”.
Dopo un primo momento di sorpresa, e scartando l'ipotesi che Erdoğan sia improvvisamente diventato matto, o completamente privo di fondamenti di economia, bisogna chiedersi: qual è la vera ragione per la quale egli sia così contrario all'aumento dei tassi di interesse, o addirittura anche solo che si creino aspettative di aumento dei tassi di interesse?
Ebbene, la vera ragione per la quale Erdoğan, ed in realtà nessuno in Turchia, né le banche, né la Banca Centrale, né la gente per le strade vuole usare l'arma dei tassi di interesse è perché ciò renderebbe palese il fatto che la Turchia ha un problema gravissimo con i già citati assegni postdatati. Se queste aspettative dovessero realizzarsi, è ragionevole pensare che molti operatori economici correrebbero in banca per incassare gli assegni in modo da poter iniziare a guadagnare l’interesse maggiorato. Ciò comporterebbe il serio rischio di precipitare il Paese in una crisi bancaria gravissima. Infatti, se oggi sappiamo che già alla fine del 2017 il valore totale degli assegni in circolazione superava di gran lunga quello delle esportazioni, si capisce che, qualora tutti volessero andare in banca ed incassare questi assegni o concordare con i loro clienti un pagamento immediato o in qualunque altra forma, il sistema bancario turco collasserebbe brevissimo tempo, visto il livello di esposizione occulta accumulato degli istituti bancari anatolici negli anni.
Ecco quindi che il palcoscenico è pronto per un drammatico scontro di potere nel quale i protagonisti sono ben consci della santabarbara sulla quale sono seduti ma allo stesso tempo cercano vicendevolmente di evitare di restare con il “cerino in mano” della responsabilità per quanto sta accadendo.
A fronte degli operatori economici, del mondo dell'imprenditoria e della gente comune che vuole la stabilità del sistema, evitare che la lira turca si deprezzi troppo e continuare ad utilizzare gli assegni postdatati come se niente fosse, abbiamo da un lato i banchieri centrali e le consorterie di potere che fanno riferimento all'ex-ministro Ali Babacan che si mascherano dietro all’ortodossia dell’evocare un aumento dei tassi d'interesse per non voler annunciare che la Turchia ha seri problemi con i suddetti assegni postdatati. Infatti, essi verrebbero immediatamente accusati di non aver vigilato per anni sullo stato del deterioramento del livello del tasso di indebitamento societario e personale di imprese e semplici cittadini.
Dall’altro, c'è proprio Erdoğan il quale non può assolutamente alzare i tassi d'interesse e allo stesso tempo deve evitare come la peste che la bomba degli assegni postdatati gli scoppi tra le mani, scenario quest'ultimo che lo vedrebbe esposto ad un pericolo potenzialmente mortale per il suo potere. Fino ad ora il despota anatolico se l'è cavata portando avanti la sua bislacca teoria sui tassi d’interesse (che bislacca lo è solo all’apparenza, visti i reali problemi dell’economia turca) e con un mix di azioni di natura sia propagandistica che di finanza da guerra.
Dal lato propagandistico, come già sperimentato nel corso della campagna elettorale del 2018, egli ha utilizzato la consumata arma delle teorie cospirative additando come responsabili dei malanni economici della Turchia dei non ben definiti gruppi di potere comprendenti entità americane, britanniche, olandesi e l'immancabile “internazionale ebraica” che vorrebbero utilizzare l'arma della svalutazione della lira turca per mettere in ginocchio il paese.
Dal lato finanziario, invece, Erdoğan ha ordinato alla Banca Centrale Turca di difendere il cambio utilizzando le riserve di valuta estera in possesso del Paese, tuttavia tale strategia ha alla lunga mostrato il suo fiato corto anche perché la Turchia ha dovuto parallelamente mobilitare le sue risorse per tenere a galla anche l'economia reale e, negli ultimi mesi, combattere gli effetti a tutto tondo dell'epidemia del Covid-19. Il risultato è che, mentre nel 2018, al momento del loro massimo valore (quando il sultano ordinò alla Banca Centrale Turca di intervenire per sostenere la lira turca) le riserve valutarie turche ammontavano a 130 miliardi di dollari, a novembre del 2019 erano scese a 104,8 miliardi di dollari, per poi passare agli 86,3 miliardi del giugno 2020 fino ai 46 miliardi di oggi. E' vero che in caso di emergenza la Turchia possiede anche 583 tonnellate d'oro, ma se anche questi ultimi “proiettili d'argento” dovessero essere utilizzati, il paese rimarrebbe veramente in balia degli eventi.
Non volendo assolutamente aumentare i tassi d'interesse e non potendo più sacrificare le ormai magre riserve valutarie, quali strategie sono rimaste ad Erdoğan per salvare la situazione? La risposta è: poche e tutte cariche di rischi ed incognite. Gli scenari sono essenzialmente quattro:
- primo: recarsi con il cappello in mano dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale come hanno fatto generazioni di leader turchi prima di lui ad ogni crisi che il Paese ha dovuto affrontare. Tuttavia questo sarebbe un colpo mortale alla sua credibilità e riporterebbe la Turchia sotto il cappio dei creditori internazionali, proprio quello che Erdoğan aveva giurato non sarebbe mai più accaduto;
- secondo: rivolgersi direttamente a grandi potenze quali Stati Uniti, Russia o Cina affinché esse aprano delle linee di prestito “da stato a stato” a suo vantaggio. Questa alternativa è, se possibile, persino più insidiosa della precedente, poiché renderebbe la Turchia dipendente direttamente dai capitali di una potenza straniera che, se particolarmente forte e spregiudicata, potrebbe piegare la Turchia al proprio volere. Dato che nessuno ad Ankara si è dimenticato degli insegnamenti della Prima Guerra Mondiale, quando l'Impero Ottomano, ostaggio del gran capitale tedesco, fu costretto ad entrare in guerra a fianco degli Imperi Centrali uscendone con le ossa rotte, è facile prevedere che tale strada verrà oggi scartata;
- terzo: trasformare la lira turca in una valuta non-convertibile, sulla base di molte valute internazionali quali la rupia indiana, la rupia indonesiana o il real brasiliano, introducendo quindi severi limiti alla libera circolazione del capitale. Tale iniziativa permetterebbe di neutralizzare il pericolo costituito dagli assegni postdatati e darebbe tempo alla bolla di “sgonfiarsi” senza traumi ma allo stesso tempo devasterebbe completamente il tessuto produttivo del Paese che, come tutti sanno, si basa sull'export. Ciò finirebbe per mandare in rovina tutta la piccola e media borghesia religiosa residente soprattutto nelle città anatoliche che fino ad oggi ha costituito letteralmente “la baionetta” che ha portato Erdoğan di vittoria elettorale in vittoria elettorale;
- quarto: continuare ad utilizzare il già consumato mix di sparate propagandistiche ed operazioni finanziarie spericolate aggiungendovi inoltre la dimensione geopolitica che permetta di raccogliere i capitali dei quali la Turchia necessita.
Osservando le azioni geopolitiche della Turchia nell'arena internazionale nell'ultimo anno, sembra proprio che la quarta strategia sia diventata la scelta di elezione dell'establishment del Paese anatolico. Negli ultimi tempi infatti, Ankara si è gettata a capofitto nella competizione internazionale e, oltre a rafforzare la sua presa sui territori di Cipro, della Siria e dell'Iraq occupati precedentemente, ha costruito basi militari in Albania, in Azerbaigian, in Libia, in Qatar e persino in Somalia. Sembra poi che tale dispositivo verrà ulteriormente rafforzato dall'apertura di nuovi “avamposti” situati in Sudan, nello Yemen e persino in Tunisia ed in altri paesi dell'Africa Occidentale francofona.
Parallelamente, Ankara ha dimostrato un innato attivismo nel lasciarsi coinvolgere nelle guerre locali, come dimostra il coinvolgimento palese o occulto dei militari turchi, e dei proxy sotto il loro controllo, nella Guerra Civile Libica, nella Guerra Civile Somala, nel Conflitto Armeno-Azero e ora pare anche nella Guerra Civile dello Yemen.
Non bisogna credere però che il pranzo servito dallo “chef anatolico” costituisca un pasto gratuito dato che, come dimostra la realtà degli accordi turco-libici sulla delimitazione delle aree di sfruttamento marittimo e gli assegni regolarmente staccati presso il ricco Emirato del Qatar, ora assommanti a 18 miliardi di dollari (e c'è da pensare che, no, questi non siano assolutamente postdatati!), in cambio del loro immischiarsi con uomini e mezzi nei conflitti locali (in barba al motto di ataturkiana memoria: “Pace in patria, pace nel mondo”), i Turchi pretendano dai loro “satelliti” di contribuire in denaro o in natura alle necessità della macchina bellico-geopolitico-economico-finanziaria che Erdoğan e i suoi accoliti hanno messo in piedi e pare non siano assolutamente intenzionati a fermare.
Fino a quando questa politica scellerata e spericolata risulterà pagante? Lo sapremo solamente continuando a seguire e monitorare gli eventi, ma ciò che è certo è che ci attendono all'orizzonte anni di guerre ed instabilità alle porte di casa nostra.
Foto: U.S. Air Force / web / TBB / presidency of the republic of Turkey / Türk Silahlı Kuvvetleri