La dimensione domestica della crisi bielorussa: i fallimenti di Lukashenko nella gestione del paese

(di Andrea Gaspardo)
20/08/20

Nel 2014, mentre a Kiev erano ancora in corso gli eventi che sarebbero sfociati nei moti di Euromaidan, l'attenzione di una parte del mondo aveva cominciato a focalizzarsi sul suo vicino visibile sulla mappa geografica ai confini settentrionali, il paese che, assieme all'Ucraina e alla stessa Russia fa parte di quelle che vengono definite “le Tre Sorelle Slave Orientali”: la Bielorussia. A quel tempo si riteneva che, sulla scia di quanto avvenuto in Georgia, in Ucraina ed in Kirghizistan, la Bielorussia sarebbe stato il prossimo paese ex-sovietico a cadere nel vortice delle cosiddette “Rivoluzioni Colorate”. Contrariamente a tutte le previsioni, nel corso delle elezioni presidenziali del 2015, pur caratterizzate dai soliti lapalissiani brogli elettorali, il popolo bielorusso decise di dimostrare una sostanziale accettazione del prolungamento della dittatura del presidente-padrone Aleksandr Grigorevich Lukashenko, forse perché spaventato dalla piega che gli eventi avevano preso nella vicina Ucraina, la quale era sprofondata in un pozzo di disordini senza fine.

Ora, prima di continuare, è necessario chiarire una cosa con i lettori di questa analisi, soprattutto quelli maggiormente ostili alla cosiddetta “narrativa occidentale” che tende a rappresentare gli altri “regimi”, specie se autoritari, come il “male assoluto del mondo” e pretende di dividere l'Universo in “buoni e cattivi” ergendosi allo stesso tempo a giudice, giuria e giustiziere. Sebbene io sia assolutamente ostile a tale narrativa e l'abbia più volte scritto in innumerevoli analisi prodotte in passato, anche parlando di paesi nei quali la dignità ha raggiunto livelli al limite dell'umano (per esempio in Venezuela) preferendo invece un approccio più pragmatico che mette insieme Storia, geografia, economia, scienze sociali, demografia e una miriade di altri indicatori per poter fare “un lavoro di fino”, nel caso particolare della Bielorussia di Lukashenko dovrò necessariamente essere tranciante e parlare, come si suol dire, “fuori dai denti”: non c'è veramente nulla da salvare nel regime istituito da quell'uomo.

La ragione di questa mia presa di posizione così netta sta nel fatto che, avendo numerosi addentellati in quel paese, ed avendolo potuto analizzare direttamente “sul campo” da ben prima dell'inizio della mia carriera professionale come analista geopolitico, ho potuto verificare in prima persona ed “in presa diretta” lo stile di Lukashenko, e non sono riuscito a trovare veramente nulla da “salvare” o anche solamente da “giustificare” nel tipo di regime che egli ha creato nel corso degli anni. Ciò nonostante, è vero che la Bielorussia si trova in mezzo ad un complicato gioco geopolitico internazionale che coinvolge la Russia e l'Occidente tutto e, questo sì, vale la pena di essere analizzato con pazienza priva di paraocchi e furore ideologico in una prossima analisi mentre in quella odierna ci concentreremo prevalentemente sulle dinamiche interne ed in particolare sui fallimenti e sulle responsabilità personali di Lukashenko nell'aver fatto scivolare il suo paese in quella che a tutti gli effetti è una crisi sistemica. Ma per poterlo fare bisogna necessariamente partire dalla collocazione geografica di questo paese, dalla sua Storia e dalla cultura della sua gente.

Per cominciare, bisogna affermare che la Bielorussia, fatti salvo gli ultimi 29 anni di Storia, dal 1991 ad oggi, non è mai stata uno stato indipendente e i Bielorussi non hanno mai sviluppato un'identità nazionale come la intendiamo noi oggi. Mentre la vicina Ucraina, anch'essa alle prese con una perenne crisi d'identità, può comunque vantare il fatto incontrovertibile di essere stata la culla della civiltà russa e la sua capitale, Kiev, è stata il centro di irradiamento che ha portato il Cristianesimo Ortodosso a plasmare culturalmente quel variegato coacervo di genti abitanti l'estrema parte orientale del continente europeo, la Bielorussia non ha avuto niente di tutto ciò.

Terra di foreste e paludi che ondate successive di invasori hanno sempre trovato assai difficili da penetrare, la Bielorussia si è sempre configurata come un'immensa “area geografica” posizionata all'estremo occidente dei domini della leggendaria “Rus' Kieviana” e che, dopo i disastri delle invasioni mongole, è stata per secoli contesa tra Polonia, Lituania e “Mondo Russo”.

Da un punto di vista etnico, i Bielorussi sono Slavi Orientali, come gli Ucraini ed i Russi, ma hanno ereditato importanti lasciti culturali di origine polacca, se si pensa al fatto che ancora oggi in Bielorussia i Polacchi costituiscano il terzo gruppo etnico del paese (ufficialmente il 3% della popolazione ma probabilmente assai di più) dopo Bielorussi e Russi e la religione Cristiana Cattolica sia praticata da almeno il 10% della popolazione (ma alcune stime la pongono ad oltre il 20%). Le statistiche etno-religiose ci consegnano pertanto un territorio che, prima di essere stato definitivamente inglobato nel “Mondo Russo” all'epoca dell'Imperatrice Caterina II, è stato per secoli accanitamente conteso tra l'Impero Russo da una parte e la Rzeczpospolita Polacco-Lituana dall'altra.

Sottoposti a tali pressioni, e vivendo in una condizione di estrema povertà ed ignoranza (l'analfabetismo nelle lande bielorusse rimase imperante almeno fino all'avvento dei Soviet), i Bielorussi non sono riusciti nemmeno a sedimentare il pilastro fondamentale sul quale viene costruita l'identità nazionale: la lingua!

Lo sviluppo della letteratura bielorussa fu molto lento e non riuscì a penetrare la massa della popolazione verso il basso perché la classe mercantile che abitava le città era costituita per la maggior parte da Ebrei parlanti tra loro lo yiddish e che accolsero immediatamente il russo come lingua di comunicazione inter-etnica e inter-culturale. Le stesse campagne bielorusse furono soggette ad una profonda commistione culturale e linguistica russo-bielorussa che finì per generare la “trasianka”, sorta di lingua mista (come il “surzhyk” in Ucraina o il “portugnol” in Brasile) che ha finito per diventare un ulteriore volano per la “russificazione”, poi divenuta “sovietizzazione” nel corso dell'Era Comunista. Il prodotto finale di questo complicato processo è che, al giorno d'oggi, il 70,2% dei cittadini della Repubblica di Bielorussia di tutte le etnie parlano correntemente il russo nella loro vita quotidiana mentre il 23,4% parla il bielorusso.

Anche dal punto di vista religioso la situazione presenta interessanti peculiarità perché, sebbene la maggioranza della popolazione sia Cristiana-Ortodossa, la cosiddetta Chiesa Ortodossa Bielorussa è parte integrante della Chiesa Ortodossa Russa e risponde direttamente a Mosca, mentre la Chiesa Cattolica locale altro non è che una succursale in tutto e per tutto della Chiesa Cattolica di Polonia.

Detto tutto ciò, l'unico tratto distintivo che resta ai Bielorussi sono le patate, ingrediente fondamentale della cucina nazionale che, grazie al loro potere nutritivo ed alla resa produttiva nei campi, hanno salvato per secoli generazioni di Bielorussi dalla morte per fame.

La Storia della Bielorussia nel XX secolo è stata costellata da un susseguirsi di tragedie: la Prima Guerra Mondiale, nel corso della quale 1 milione di Bielorussi morì, la Seconda Guerra Mondiale, che provocò la morte di altri 3 milioni di abitanti del territorio, pari ad oltre il 30% della popolazione, ed in mezzo ad esse, le repressioni staliniane.

L'ultima grande tragedia avvenne nei mesi successivi al 26 aprile del 1986 quando il 70% dei radionucleoli contenuti nella nube radioattiva rilasciata dal disastro della centrale nucleare di Chernobyl ricaddero proprio sul territorio della Bielorussia, in particolare negli oblast' di Gomel e Mogilev, che rappresentano circa un terzo dell'intero territorio nazionale, inquinandoli in maniera permanente. E fu proprio il disastro di Chernobyl, assieme alla scoperta delle fosse comuni di epoca staliniana nella foresta di Kurapaty, nel giugno del 1988, a creare la prima vera frattura tra il potere sovietico e la popolazione civile bielorussa (fino ad allora sostanzialmente lealista, disciplinata e acquiescente nei confronti di Mosca) e a fungere da catalizzatori per la creazione del Fronte Popolare Bielorusso, un movimento democratico che funse da motore trainante per spingere il paese verso l'indipendenza, che venne proclamata il 25 di agosto 1991 sotto la guida di Stanislav Stanislavovich Shushkevich.

Gli anni subito successivi all'indipendenza si rivelarono tragici per la Bielorussia, anche rispetto agli altri paesi post-Sovietici e dell'Europa Orientale in generale. Nonostante la Bielorussia fosse stata l'unica repubblica ex-sovietica ad ereditare un sistema industriale completo ed integrato ed una popolazione di poco più di 10 milioni di abitanti caratterizzati nel complesso da un alto livello d'istruzione e da una produttività di tutto rispetto, l'economia del paese (completamente rivolta alle esportazioni) venne devastata dalla perdita del mercato comune costituito dagli altri territori della ex-Unione Sovietica e dei paesi del Patto di Varsavia che fino a quel momento avevano assorbito tutto il surplus di produzione industriale ed agricola. Non solo, sebbene al momento dell'indipendenza il rublo bielorusso fosse considerato una valuta forte (1 rublo bielorusso valeva all'epoca l'equivalente di 2 rubli russi, o 10 vecchi rubli sovietici, ed era disponibile, tra le altre, persino la banconota da 50 copechi!), ben presto l'economia della Bielorussia divenne preda della cosiddetta “iperinflazione” e, nonostante da allora il rublo bielorusso sia stato svalutato infinite volte e la moneta sia stata riformata per ben tre volte (nel 1992, nel 2000 e nel 2016) essa non ha mai acquisito una vera stabilità rimanendo assai volatile.

Fu in questo scenario che, alle elezioni presidenziali del 1994, un oscuro deputato del Soviet Supremo della Bielorussia con un passato da direttore di una cooperativa agricola statale (kolchoz), Aleksandr Grigorevich Lukashenko, riuscì a farsi portavoce del malcontento popolare e a farsi eleggere a furor di popolo presidente della repubblica sbaragliando sia gli esponenti del vecchio regime sovietico che gli stessi eroi del movimento per l'indipendenza della Bielorussia. La vittoria netta ed assolutamente democratica di quelle prime elezioni presidenziali (al secondo turno, Lukashenko ottenne l'80,6% delle preferenze) trasformarono l'ex-dirigente kolchoziano nell'uomo forte del paese ed egli non perse tempo a rafforzare il suo potere rigettando una dopo l'altra tutte le proposte di riforma sia del sistema politico che di quello economico favorendo invece iniziative di natura spiccatamente accentratrice in puro stile sovietico (modello al quale, per altro, egli non ha mai negato di volersi ispirare e che, parole sue, “se potesse restaurerebbe in toto”!).

Il riordino del potere interno in senso autoritario doveva però servire a Lukashenko come piedistallo per quella che era la sua vera ambizione in politica estera, e cioè la restaurazione dell'Unione Sovietica, progetto rispetto al quale egli dedicò anima e corpo per i successivi 10 anni dopo la sua elezione a presidente e che culminò con la firma, l'8 dicembre del 1999, del “Trattato per la Creazione dell'Unione Statale di Russia e Bielorussia”, primo passo per la reintegrazione di tutte le repubbliche ex-sovietiche in un unico paese nell'arco dei successivi 10 anni.

Sebbene tale progetto possa apparire oggi ridicolo, non dobbiamo dimenticare che, nel corso degli anni '90, la Russia versava in una condizione di estrema debolezza sia politica che economica sulla scena internazionale ed il presidente di allora, Boris Nikolayevich Eltsin, risultava praticamente esautorato agli occhi del paese. Dall'altra parte invece, la pur piccola Bielorussia appariva stabile grazie al pugno di ferro di Lukashenko e lo stesso leader bielorusso si era dimostrato così sfrontato da stringere relazioni privilegiate con vari elementi dell'establishment politico-militare moscovita permettendosi addirittura di organizzare visite a sorpresa nelle remote province russe redarguendo i governatori locali colpevoli di non fare abbastanza per risolvere i problemi della gente. Era chiaro a tutti che Lukashenko si stava creando una sua nicchia personale di potere per tentare la successiva scalata a Mosca una volta che Eltsin fosse morto o rimasto incapacitato dai suoi problemi di salute.

Fortunatamente, i piani del despota di Minsk furono frustrati dallo stesso establishment russo che egli aveva così sonoramente umiliato quando, alla fine di dicembre del 1999, Eltsin fu costretto a ritirarsi dalla scena pubblica per lasciare spazio all'allora primo ministro e poi presidente, Vladimir Vladimirovich Putin. L'ascesa al potere di Putin spianò la strada ad una nuova era di stabilità per la Russia, ma costituì anche “il legno ed i chiodi” per la bara delle ambizioni personali di Lukashenko che, da quel momento, ripiegò sempre più su se stesso concentrandosi a controllare la “sua” Bielorussia alla stregua di uno “sceiccato del Golfo”; il resto sono solamente foglie di fico.

Sebbene Lukashenko riscontri un'innata popolarità tra i settori del pubblico internazionale maggiormente ostili alla narrativa dei “media occidentali” ed anzi venga a volte osannato per le sue politiche sociali e per l'ordine che egli ha portato in Bielorussia, queste semplificazioni non hanno alcun fondamento quando raffrontate con i freddi dati dell'analisi statistica e sociologica.

All'indomani della sua elezione a presidente, Lukashenko promise di portare il paese verso la strada di un confuso “socialismo di mercato” in opposizione al “capitalismo selvaggio” allora imperante in Russia. Per ottenere ciò, l'amministrazione statale ha sin dal 1994 operato un ferreo controllo dei prezzi e rigidi tassi di cambio. Lungi dall'ottenere il risultato sperato, tali politiche hanno favorito invece l'espansione del mercato nero e un'eccessiva volatilità del rublo bielorusso, con conseguente perdita di fiducia nella moneta nazionale da parte della popolazione civile. Non solo, con una mossa apertamente disincentivante nei confronti dell'imprenditoria privata, il governo ha nel corso degli anni introdotto 28 nuove tasse dirette specificatamente a colpire gli imprenditori e ha introdotto una legislazione fortemente invasiva al fine di permettere al governo di dettare agli imprenditori privati le scelte d'investimento. Una serie di successive retromarce, per esempio l'abolizione della golden share nel 2008 (la quale non ha comunque eliminato la presenza dello stato nel capitale delle imprese private che anche oggi si aggira attorno al 21,1%!), non hanno convinto gli investitori internazionali che infatti hanno preferito tenersi alla larga dalla Bielorussia (chi dice che fare impresa in Italia è impossibile, farebbe bene a farsi prima un giretto in Bielorussia!).

Con il passare del tempo, la dipendenza economica della Bielorussia nei confronti della vicina Russia non ha fatto che aumentare, come un cappio che si è lentamente ma inesorabilmente stretto attorno al collo di Minsk. I dati odierni ci dicono infatti che la Russia assorbe il 46,3% dell'export bielorusso e allo stesso tempo fornisce il 54,2% delle importazioni. Tuttavia questi numeri, già di per sé eloquenti, nascondono un'altra subdola verità. Infatti se andiamo ad analizzare con pazienza certosina le categorie dei prodotti esportati da Minsk ci accorgiamo che ben il 34% (la percentuale di maggioranza relativa) è costituito da raffinati del petrolio. La Russia poi sostiene l'economia bielorussa in modo palese attraverso aiuti diretti e sconti di vario tipo, specie nel campo dell'energia e dei carburanti, che assommano al 10% del PIL del paese.

Si ha quindi una situazione perversa nella quale la Bielorussia svolge il ruolo di paese di transito del petrolio russo diretto verso l'Europa e una parte di questo stesso petrolio viene raffinato dai Bielorussi che poi lo rivendono ad un prezzo maggiorato. Ecco quindi che, pur non essendo un paese produttore di petrolio, la Bielorussia si ritrova a tutti gli effetti nella scomoda posizione di “paese rentier” (cioè paese che vive di rendita).

Il susseguirsi di crisi economiche internazionali dal 2008 ad oggi ha però dimostrato che le politiche economiche dei “paesi rentier” hanno sempre il fiato corto perché pesantemente condizionate dall'andamento dei prezzi degli idrocarburi e delle altre materie prime, e la Bielorussia non si è dimostrata un'eccezione.

Negli ultimi 10 anni l'economia della Bielorussia ha registrato alcuni dei tassi di crescita più bassi del continente europeo (+1,9% di media) con una tendenza al peggioramento complessivo. Il 2019 si è chiuso con un misero +1,2% (il più basso tra tutte le 15 repubbliche post-Sovietiche) e le previsioni per il 2020 parlano di un -4%, una perdita netta che, se tutto andrà bene, necessiterà di un intero lustro per essere riassorbita. C'è da aspettarsi che Lukashenko tenterà di porre argine a questa situazione pompando denaro nel sistema economico soprattutto a vantaggio dell'industria e dell'agricoltura, come già fatto nei decenni passati, ma tale decisione si risolverebbe solamente in uno spreco di risorse.

Studiando attentamente la distribuzione della forza lavoro si nota che ben il 66,8% dei lavoratori è impiegato nel settore dei servizi, i lavoratori nel comparto industriale figurano per il 23,4% mentre quelli del settore agricolo solo al 9,7%. Interessante è notare che l'80% della ricchezza creata dall'economia bielorussa negli anni 2000 è stata prodotta proprio dal settore dei servizi, il 19% dall'industria e solo l'1% dall'agricoltura; si capisce bene come Lukashenko non abbia imparato veramente nulla dal fallimento dell'agricoltura sovietica. Non solo, se consideriamo il fatto che le imprese di proprietà dello stato (quelle che ricevono la pressoché totalità dei sovvenzionamenti e che sono anche le meno produttive) danno lavoro a circa il 39,3% degli occupati, mentre il 57,2% lavorano nel settore privato ed il 3,5% è impiegati da compagnie straniere, si capisce che l'intero sistema di controllo creato da Lukashenko attorno all'economia del suo paese è a tutti gli effetti paragonabile ad una gabbia che soffoca le energie della nazione e spinge i migliori ad emigrare.

Dopo l'economia, è la demografia l'altro pilastro fondamentale che dobbiamo osservare per valutare l'incisività dell'operato di Lukashenko e qui non restano nemmeno gli occhi per piangere. Nel 1991, al momento della sua indipendenza dall'Unione Sovietica, la Bielorussia aveva una popolazione di 10.194.000 abitanti. Nei due anni successivi, essa continuò ad aumentare fino a toccare il massimo di 10.240.000 nel 1993, principalmente grazie al trasferimento in Bielorussia di un buon numero di cittadini ex-sovietici con legami famigliari e lavorativi nel territorio del paese. Tuttavia nello stesso anno, per la prima volta dalla Seconda Guerra Mondiale, la Bielorussia registrò un saldo negativo tra nascite e morti quantificato in -11.160.

Da allora, e fino ad oggi, le cose non hanno fatto che peggiorare anno dopo anno, con un saldo tra nascite e morti invariabilmente negativo e una crescente tendenza all'emigrazione, specialmente tra le classi di popolazione più giovane nonostante, almeno a parole, il governo affermasse a più riprese che “la questione demografica” fosse una priorità all'ordine del giorno. Tuttavia, anziché promuovere una seria politica sociale di miglioramento della qualità della vita della gente e di incentivo alla natalità, Lukashenko si è sostanzialmente limitato ad invitare le donne “a rimanere a casa e fare figli” e a limitare fortemente il diritto all'aborto.

Se le politiche anti-abortiste di Lukashenko hanno almeno avuto gli effetti collaterali (assolutamente non voluti!) di innalzare l'attenzione sociale nei confronti dei problemi di sessualità, di far aumentare l'utilizzo dei contraccettivi specie tra i giovani e di ridurre il numero complessivo di aborti (nel 2011 se ne contarono 26.858 contro i 260.839 del 1990, mentre il numero di nascite nello stesso anno era stato di 142.167!), esse non hanno avuto effetti risolutivi sul salasso del tasso di natalità.

Un leggero miglioramento della situazione demografica della Bielorussia, si ebbe in corrispondenza degli eventi di Euromaidan in Ucraina, quando numerosi Ucraini, Russi e Bielorussi ivi residenti si trasferirono in Bielorussia attirati dalla apparente stabilità del paese. Pur nella persistenza dei saldi di natalità negativi, la popolazione del paese registrò un lieve aumento, da 9.464.000 nel 2012 a 9.498.000 nel 2017. Nello stesso anno Lukashenko dichiarò persino che, nel corso dei prossimi anni, la popolazione bielorussa sarebbe aumentata fino a raggiungere i 20 milioni. Gli eventi degli ultimi tre anni hanno dimostrato che le sue erano solamente fantasie dato che la popolazione ha subito un nuovo crollo verticale posizionandosi a 9.408.000 unità odierne ed il numero di nascite dell'anno 2019 ha segnato il record storico negativo di 87.851 (erano state 207.700 nel 1958, anno di massima natalità registrata nella Bielorussia sovietica).

Coloro che attribuiscono le odierne manifestazioni popolari unicamente alla nefasta influenza di forze esterne provenienti dalla Polonia, dagli Stati Baltici e dall'Occidente in generale dovrebbero anzi vestirsi di umiltà ed analizzare con pazienza la stagnazione economica e sociale alla quale Lukashenko ha condannato il suo paese per la sua personale incapacità a distanziarsi da usi e cliché mutuati dal periodo sovietico e che avrebbero invece dovuto essere sostituiti da un nuovo progetto politico/economico/ideologico più al passo con i tempi.

Ironicamente, il colpo finale a Lukashenko non è arrivato dall'opposizione e nemmeno dai suoi nemici esterno, bensì dall'epidemia del Covid-19 che non ha risparmiato la Bielorussia così come il resto del mondo. La gestione della crisi da parte del padre-padrone del paese si è rivelata pericolosa, per non dire dilettantesca.

Nonostante sulla carta la Bielorussia avesse sia i mezzi che le risorse per contrastare efficacemente la minaccia e minimizzare i rischi per la popolazione, Lukashenko ha prima cercato di negare il problema affermando che il Covid-19 era solamente una “febbriciattola” (in questo modo ponendosi sullo stesso piano di mostri di incapacità come Donald Trump e Jair Bolsonaro), poi, quando i casi hanno cominciato a moltiplicarsi in maniera incontrollata, egli ha prima cercato di sdrammatizzare lasciandosi andare ad uscite quali: “la migliore cura per questa psicosi è andare a lavorare in campagna perché il trattore e i campi curano tutto”, passando infine alla censura vera e propria dei dati sia degli ammalati che dei morti (analizzando con modelli epidemiologici i dati ufficiali bielorussi è facile capire che essi siano o stati dati completamente a caso oppure che siano soggetti a clamorose falsificazioni statistiche, e nemmeno tanto sofisticate, quali, per esempio, non dichiarare mai un numero di contagi giornalieri superiore alle 1000 unità). E non dimentichiamoci poi del rifiuto di annullare tutti gli eventi pubblici (come per esempio la parata per la “Festa della Vittoria”) ai quali la partecipazione della gente è stata caldamente raccomandata, quando non resa obbligatoria mediante ricatti e sotterfugi di ogni tipo (per esempio la minaccia della perdita del posto di lavoro per gli impiegati pubblici). Questa è stata, a mio modesto avviso, la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso.

L'intera scriteriata gestione dell'emergenza del Covid-19 ha ricordato troppo ai Bielorussi la gestione criminale del disastro di Chernobyl e, per reazione, il popolo ha cominciato a mobilitarsi. Non è assolutamente un caso infatti che le proteste che stanno in questo momento attraversando la Bielorussia non siano affatto incominciate all'indomani delle elezioni del 10 di agosto, come vorrebbero far credere sia gli apologeti di Lukashenko e le fabbriche di troll che nel mondo russofono hanno iniziato ad inondare Internet di disinformazione, sia i distratti commentatori in Occidente, ma già dal 24 maggio, quando la pandemia stava colpendo il paese nella sua fase più acuta e vennero diffusi su YouTube i risultati ufficiali di un webinar online organizzato dalla “Società Bielorussa dei Medici Anestesisti e Rianimatori” i quali dicevano che, per esempio, la reale mortalità dei pazienti di Covid-19 nel corso del mese di aprile nella sola capitale Minsk fosse stata del 27%!

Alla luce di questo progressivo, e non istantaneo, deterioramento della situazione, possiamo affermare con un notevole grado di certezza che Lukashenko non stia avendo a che fare con “un golpe pilotato dall'estero” e nemmeno con “una rivolta di piazza realizzata da un gruppo di facinorosi in stile Euromaidan”, bensì con il risveglio di un popolo che ne ha abbastanza della sua incapacità di gestire il paese, al netto di discorsi elevati sul valore della democrazia o della libertà personale che notoriamente hanno sempre lasciato i Bielorussi piuttosto tiepidi.

Come la situazione evolverà, dipenderà non sono dalla dimensione interna ma anche dagli scenari di geopolitica internazionale che si stanno consumando sopra le teste dei Bielorussi, ma questo sarà l'argomento della prossima analisi.

Foto: Cremlino / Szeder László / web / Alexander Lipilin / Mortier.Daniel