Il governo non riconosciuto dalla comunità internazionale con sede a Tobruk e presieduto dall'ex primo ministro libico Abdullah al-Thani si è dimesso domenica 13 settembre sull'onda delle proteste popolari in Cirenaica (foto). Le dimissioni, consegnate nelle mani del presidente della Camera dei Rappresentanti Aguila Saleh Issa, erano state in un primo tempo respinte e poi inviate al Parlamento di Tobruk per il voto. Le manifestazioni che hanno scosso le fondamenta dell'esecutivo di al-Thani sono espressione del malcontento da tempo serpeggiante ed ormai esploso tra la popolazione civile per le peggiorate condizioni di vita in Cirenaica; basti pensare che nella Libia orientale i cittadini possono usufruire, a causa delle ristrettezze e dei danni provocati dal conflitto in corso, dell'energia elettrica per sole 4 ore al giorno e che la crisi economica si fa sentire.
Dal comando generale dell'Esercito Nazionale Libico (LNA) il portavoce, generale Ahmed al-Mismari, ha annunciato il sostegno delle truppe regolari alle proteste popolari invitando i cittadini a "non dare ai terroristi e agli oppositori l'opportunità di distruggere le istituzioni statali utilizzando le manifestazioni per sabotare, distruggere e rubare proprietà pubbliche e private" così come ha riconosciuto al popolo il "il diritto a manifestare e respingere l'amara realtà in cui cospiratori, gli agenti stranieri e i traditori hanno portato il paese". Dunque il maresciallo di Libia Khalifa Haftar ha deciso di schierarsi con i manifestanti e contro il governo dimissionario, quindi anche in contrapposizione a Saleh, principale esponente cirenaico delle "colombe" che cercano il dialogo con Tripoli.
Le serie sconfitte militari subite da Haftar in Tripolitania dopo l'arrivo al fronte delle forze regolari turche e dei miliziani al soldo di Ankara hanno intaccato pesantemente il prestigio politico del generale lasciando l'iniziativa a Saleh ed al-Thani. Con le truppe schierate lungo la mezzaluna Sirte-al Jufra, Haftar gioca una doppia partita: dal punto di vista militare l'obiettivo è quello di rafforzare il meccanismo di difesa della base di al-Jufra e del suo distretto, così come di Sirte così da impedire un'avanzata in profondità, al cuore dei pozzi petroliferi cirenaici, da parte dei turco-tripolini; da quello politico sfruttare la crisi del governo di al-Thani per sabotare i colloqui di Bouznika e recuperare il terreno perso a Tobruk.
Nei giorni scorsi più volte le forze del GNA hanno denunciato episodi di violazione del cessate-il-fuoco in vigore da parte dei soldati di Haftar (e dei mercenari russi della Wagner Group). In verità non si è trattato solo di scaramucce ma di spostamenti di uomini, mezzi ed armi lungo la linea di fronte tenuta dagli haftariani. Allo stato attuale Haftar non potrebbe garantire la sicurezza né di Sirte né di al-Jufra poiché solo una striscia di pochi chilometri separa il nemico da queste importanti posizioni; la vicinanza dei turco-tripolini non permette di attuare quel che la conformazione del terreno invece consentirebbe: la difensiva elastica con lo snodo stradale di Wadi Jarv e l'aeroporto Gardabya come perni. La vicinanza a Sirte costringerebbe, in caso di attacco generale da parte del nemico, i comandanti haftariani a retrocedere inevitabilmente verso la città per ingaggiare una lenta e cruenta battaglia di logoramento nel centro abitato. La difesa di Sirte passa inevitabilmente anche per il possesso della base di al-Jufra poiché è dalle sue piste che decollano i caccia che garantiscono la sicurezza della vecchia roccaforte di Gheddafi, così come è il controllo del Distretto di Jufra che permette ad Haftar di evitare un accerchiamento turco-tripolino di Sirte.
Pare comunque che la volontà di Tripoli e Tobruk sia quella di mantenere la tregua, uno dei modi attraverso i quali – per usare le parole del ministro degli Esteri turco Vevlut Cavusoglu – "liberarsi di Haftar" che è, come già detto (v.articolo), il peggior nemico dei colloqui marocchini. A tal proposito l'appoggio ai manifestanti della Cirenaica, il ricatto all'Italia sulla liberazione dei pescatori siciliani sequestrati dalla Guardia Costiera bengasina e la riapertura dei giacimenti petroliferi in suo possesso, sono tutte mosse che fanno parte della più ampia strategia di Haftar per screditare i suoi stessi referenti politici.
Sostenere le proteste significa minare dalle fondamenta la credibilità ed il potere negoziale di Saleh e dei suoi collaboratori, il che equivale non tanto ad esacerbare i già pessimi rapporti con Tripoli quanto a presentarsi nuovamente come un interlocutore con il quale non si può fare a meno di venire a compromessi. E questo vale tanto per i sostenitori cirenaici di una "soluzione politica" della guerra quanto per al-Sarraj.
Chiedere a Roma di liberare quattro scafisti libici condannati per omicidio (che Haftar ha chiamato, in barba a quanto dimostrato dalle autorità italiane, "calciatori") in cambio della restituzione dei 18 pescatori siciliani sequestrati il 2 settembre e tenuti in ostaggio a Bengasi equivale a sondare il terreno per un eventuale "riconoscimento internazionale" della posizione del maresciallo libico. Questo perché, qualora il governo italiano accosentisse allo scambio su un piede di parità, o giudicando "innocenti" i quattro scafisti libici o "criminalizzando" i pescatori trapanesi, allora Haftar avrebbe una volta in più confermato di "esistere" e dunque l'obbligo d'essere tenuto in considerazione per l'assetto futuro della Libia.
L'assicurazione data all'Ambasciata USA in Libia di aprire i pozzi petroliferi della Cirenaica entro il 12 settembre ed i primi pallidi segnali in tal senso giunti proprio in questi giorni da una parte fanno apparire Haftar come un leader credibile e disponibile al dialogo, ma soprattutto come il vero detentore del potere in Libia o, almeno, in Cirenaica. Questo perché l'industria petrolifera, sia estrattiva che di raffinazione, è di vitale importanza per l'economia libica e chi la controlla, di fatto, controlla il Paese.
L'occupazione dei pozzi e degli impianti, nonché il blocco della produzione nazionale, hanno causato perdita per circa 9,6 miliardi di dollari alla National Oil Company libica e questo perché Haftar ha scientemente optato per la linea dura contro la holding controllata dai tripolini. Nell'intricata ragnatela del potere energetico in Libia Haftar resta ancora una figura di primo piano e questo è un utile strumento nelle mani di chi necessita di visibilità sia in chiave di politica interna che internazionale. Pare che questa scelta sia stata determinata dal raggiungimento di un accordo sulla distribuzione dei proventi del petrolio con Haftar che avrebbe "limato" la sua iniziale richiesta di creare un conto bancario fuori dalla Libia dove far confluire i fondi della Banca Centrale Libica (controllata da Tripoli), ente che ha il compito di emettere i dividendi dell'industria dell'oro nero.
Il regno di Khalifa Haftar è quello dell'incertezza politica, dello stato d'eccezione che diventa ordinario, dove egli diventa tanto più forte quanto i suoi referenti politici di Tobruk si indeboliscono. Una parte della stampa internazionale vede nella condotta di Haftar una risposta positiva ai colloqui marocchini, in realtà si tratta di un chiaro tentativo di sabotaggio da parte del maresciallo che si considera l'unico centro di potere della Cirenaica e l'unico autorizzato a vestire i panni del raʾīs in Libia.
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