Nell’anno in cui la Cina raggiungerà il primo dei due obiettivi indicati da Xi Jinping all’atto della sua investitura (2012), quando indicò il 2021 come data in cui la società cinese sarebbe diventata “moderatamente prospera” - (l’altro obiettivo, nel 2049, è la trasformazione della Cina in paese socialista “completamente moderno”) -, è giunto il momento di un ulteriore sforzo per comprendere di più la realtà che abbiamo di fronte.
È ormai un dato di fatto; la Cina si sta preparando a dominare il mondo.
Una dominazione che - già qui occorre fare una prima distinzione - non è nel senso occidentale del termine.
La storia del nostro emisfero è infatti un susseguirsi di vittorie e di sconfitte, il pensiero strategico europeo basandosi sulla manovra delle forze e del fuoco, costantemente teso all’annientamento del nemico.
Dall’impero romano, ai trattati militari dell’età moderna, sino ad arrivare al pensiero di Clausewitz, il fine di ogni guerra è sempre stato la distruzione fisica del nemico, il suo annichilimento manu militari.
Tutto questo deriva dalla peculiare logica occidentale, essenzialmente lineare, razionale, deterministica, tutta incentrata sui rapporti di forza come condizione necessaria per prevalere.
La Cina, dal canto suo - ma potremmo dire tutto l’Oriente - ragiona da sempre in modo differente, rispondendo a una logica squisitamente a-lineare. È, infatti, abituata - come spiega Fabio Mini - a “valutare1 sempre le interazioni tra gli opposti complementi, a tendere al raggiungimento d’equilibri dinamici non statici, non temendo gli squilibri, le disarmonie, le conflittualità e le aberrazioni della vita politica e di quella quotidiana”.
La potenza asiatica ha una concezione ciclica della storia, in cui tutto è intimamente connesso ad un più ampio quadro generale, nel quale i campi in cui noi occidentali tradizionalmente tendiamo a ripartire le azioni - militare, economico, politico, dell’informazione, sociale ecc. - sono intimamente collegati fra loro.
Come ha giustamente osservato Henry Kissinger2, è nei due giochi più popolari, degli scacchi (occidentale) e del Go (cinese), che le differenze tra le due diverse concezioni si colgono con maggior forza.
I primi si basano sulla vittoria contro l’avversario. Fare “scacco matto” implica costringere l’avversario in una posizione il cui abbandono comporti la distruzione del re.
Il Go, invece, nel suo nome originario wei qui - letteralmente, gioco dei pezzi che circondano - consta di 180 pezzi (gli scacchi solo 32) e consiste nel posizionare le pedine sulla tavola in modo tale da circondare l’altro giocatore e limitargli qualsivoglia movimento.
Richiede un più sottile e versatile pensiero tattico, considerate anche le infinite possibilità di gioco, di gran lunga superiori a quelle degli scacchi, tanto che solo giocatori molto esperti riescono a comprendere appieno il vantaggio di un giocatore rispetto all’altro.
Nel Go il risultato finale è il prodotto di una molteplicità di situazioni locali, in cui le posizioni di vantaggio e di svantaggio sono intimamente interconnesse, e mai definitive.
Non deve allora sorprendere, se i cinesi, soprattutto in diplomazia, sono soliti combinare tutti gli strumenti a loro disposizione, il più delle volte avendo un obiettivo tutt’altro che immediato, e perciò difficilmente riconoscibile dall’avversario, prodromico, però, al raggiungimento di un end-state strategico.
E lo fanno alla loro maniera: sommessamente, con il consueto apparente distacco, mai perdendo di vista l’obiettivo. In coerenza con la linea diplomatica tracciata più di trent’anni fa da Deng Xiaoping: “osservare3 con calma, proteggere la nostra posizione, far fronte alle questioni con pacatezza, celare la nostra forza e attendere il nostro tempo, mantenere un basso profilo, ottenere risultati e non rivendicare mai l’egemonia” (冷静观察,稳住阵脚,沉着应付,韬光养晦,善于守拙,绝不当头”).
AI cinesi, d’altronde, un simile modus operandi, viene facile perché, a differenza delle democrazie occidentali, sono da sempre abituati a pianificare con molto anticipo contando sul dirigismo politico del celeste imperatore prima, e del comitato centrale del partito ora.
In tal modo, oggi, possono raccogliere i frutti di una inarrestabile corsa, iniziata con le riforme economiche di Deng Xiaoping, al quale si deve il “socialismo con caratteristiche cinesi” e la costituzione delle “zone economiche”, e con la più recente evoluzione in chiave autoritaria di Xi Jinping, tutta incentrata a preservare la centralità del partito comunista e dei suoi organi decisionali.
Se il progresso cinese atterrisce noi occidentali, soprattutto quando ci indica il nostro inesorabile declino, per i cinesi è, invece, semplicemente nell’ordine naturale delle cose; rappresenta l’evolversi di un processo millenario, ciclico, nel quale fasi di violenza e disgregazione si sono costantemente alternate a momenti di pace e di unità territoriale.
Comprendere la Cina significa allora penetrare sino in fondo, per quanto a noi occidentali sia possibile - (e già qui i cinesi avrebbero non poche riserve in merito) - il loro pensiero e lo spirito dell’intera nazione.
Partendo dal fatto che per i suoi abitanti la Cina è sempre esistita. Non c’è infatti, nella narrazione nazionale, una data fondativa, un percorso storico precedente l’inizio vero e proprio della loro civiltà.
La Cina è sempre stata immanentemente li, precedendo per età e per rango tutte le civiltà conosciute, da quella egizia alle città stato della Grecia classica. (Si pensi solo che ideogrammi, scritti e letti oggi da oltre un miliardo e 400milioni di cinesi, sono stati concepiti nel II millennio a.C.).
In tutti i cinesi vi è quindi un’idea di eternità, di immanenza, che ritorna sovente nella visione che hanno del mondo e nel modo con cui vivono il proprio tempo; una visione che si sublima nella percezione di essere i soli chiamati a una missione celeste.
Anche per questo, la Cina si è sviluppata in modo introflesso, non curante delle nazioni alla sua periferia. Con la missione principale di perpetuare i propri valori e tradizioni, ma al solo interno del suo spazio territoriale e culturale, l’unico in cui quei valori e tradizioni potevano perpetuarsi.
È stata questa peculiare forma di esclusività ad aver storicamente contraddistinto i rapporti di Pechino con gli altri stati.
Con quelli posti al confine del suddetto spazio culturale, pretendendone tout court la subordinazione. Con gli altri, quelli ai confini più remoti - considerati barbari perché non in grado di assorbire le regole e le leggi cinesi -, adottando un’accorta strategia di divide et impera, tesa ad alleggerire la minaccia dove era più difficile spostare per tempo masse ingenti di guerrieri.
Il fatto poi che la Cina non abbia mai intessuto rapporti con stati paragonabili per grandezza e sofisticatezza ha certamente facilitato questo isolazionismo. Né con l’India, che per gran parte della sua storia è stata divisa in regni minori e dalla quale è divisa dall’altopiano del Tibet e dall’Himalaya, né con l’impero Babilonese e quello Romano, posti al di là degli sconfinati spazi desertici dell’Asia centrale. Tantomeno, in epoca moderna, con l’Europa, costituita nell’immaginario cinese da una molteplicità di piccoli stati barbarici.
Questa sua autoreferenzialità, culturale e valoriale più che politica, ha privato la Cina di qualsivoglia smania di conquista o di annessione territoriale all’esterno del “suo” spazio.
Lo si vide quando, con la dinastia Song (960-1279) detenne il primato delle conoscenze in campo nautico; o quando nel 1433 compì l’ultima, e forse la più importante delle spedizioni navali: quella al comando dell’ammiraglio Zheng He, con cui raggiunse le coste dell’Africa orientale.
Anche allora, l’ammiraglio, nei porti toccati lungo il tragitto, si limitò solo a invitare i sovrani rivieraschi a recarsi in Cina per onorare il celeste imperatore. Nulla di più. (Consegnando così gli oceani agli europei, e spalancando loro le porte al mezzo millennio di dominio occidentale ormai giunto al termine).
È, questa autoreferenzialità, soprattutto figlia di una concezione gerarchica - in diplomazia, così come nelle questioni di politica interna -, di chiara derivazione confuciana, in base alla quale Pechino si pone al vertice di ogni sistema di relazioni.
Per i cinesi, ogni cittadino (ogni stato) deve soprattutto conoscere il posto che gli spetta nella società (nella comunità delle nazioni), e comportarsi di conseguenza, riconoscendo al partito (alla Cina) una posizione di assoluta centralità.
Che poi, questa intima concezione, venga camuffata con espressioni invocanti l’armonia fra le nazioni, il progresso condiviso e la prosperità comune è tutto un altro discorso.
Il concetto centrale di armonia (he, 和 ), molto spesso enunciato da Xi Jinping, è figlio di quello, altrettanto citato, di ordine, declinato in tutte le sue forme.
Ordine sociale, mediante l’esercizio delle Cinque Relazioni confuciane (wulun, 五 伦) , fra:
1. sovrano e suddito, basata sulla lealtà;
2. padre e figlio, basata sulla pietà filiale;
3. fratello maggiore e fratello minore, basata sul rispetto;
4. marito e moglie, basata sulla tolleranza;
5. amico e amico, basata sull’affetto.
Ordine mondiale, da perseguire in un nuovo sistema internazionale, non più figlio degli accordi di Bretton Woods del 1944, che riconosca alla Cina la centralità che le compete per storia e per rango.
Ultima riflessione. L’appellativo Cina, dalla denominazione della dinastia Qin che unificò il paese, fu scelto dai Portoghesi nel XV secolo. Il nome del paese, attribuito dalla sua tradizione classica, è invece Zhōngguó (中國/中国, “terra di mezzo”).
Nel 1040 della nostra era, un autore cinese, Shi Jie, scriveva: “il cielo è sopra, la terra è sotto, e ciò che sta in mezzo è chiamata Cina”.
Nel nome, il riferimento a una interposizione verticale (tra cielo e terra) - non orizzontale, tra stati contermini -, che eleva la Cina a un rango speciale, relegando tutti gli altri alla sua periferia.
Una periferia che siamo noi tutti.
1 “La guerra dopo la guerra” di Fabio Mini. Einaudi 2003. A pag. 37.
2 “On China” di Henry Kissinger. Penguin 2011. A pag.23
3http://dspace.unive.it/bitstream/handle/10579/15693/836212-1224193.pdf?s...
Foto: Xinhua / Ministry of National Defense of the People's Republic of China / web