Geopoliticamente il Mediterraneo si attaglia con una certa precisione all’espressione americana VUCA, dove Volatility, Uncertainty, Complexity e Ambiguity tratteggiano panorami propri della Guerra Fredda. L’horribilis 2020 ha decretato che la crisi libica, se mai avrà soluzione, non la troverà entro i confini nazionali; è sufficiente constatare presenze russe e turche per rendersi conto dell’estensione del terreno di scontro, anche se per la Turchia l’impegno libico è solo una parte di una proiezione di potenza in spazi con reminiscenze ottomane1 ed anche oltre, come in Somalia, dove la liberazione di Silvia Romano ha segnato, per Ankara, il riconoscimento di una ragguardevole assertività, per altri di un momento di inane vacuità.
Che la recita libica potesse riservare coup de théâtre era risultato chiaro già dal momento dell’annuncio del ritiro dalla scena politica di al-Sarraj, capo del governo ufficiale di Tripoli, ostaggio sia delle milizie territoriali sia di politici come il ministro degli Interni Bashagha, gradito ad Ankara; un premier che dopo 5 anni vissuti pericolosamente alla guida del GNA2, e dopo aver accettato l’aiuto del demone turco che, a perenne caccia di risorse energetiche, ha preteso l’anima libica con il riconoscimento di un confine marittimo condiviso nel Mediterraneo orientale in un'area rivendicata dalla Grecia ed oggetto di ulteriori contestazioni internazionali, ha optato per un passo indietro, in attesa di nuovi possibili incarichi, non escluso l’ambito ONU.
È evidente che se la Turchia consolidasse l’impatto determinato dal suo intervento in Libia, potrebbe ambire ad irradiare potenza in tutto il Mediterraneo orientale, fino ad intaccare gli interessi regionali israeliani, non esclusi quelli riguardanti i partenariati di Gerusalemme con l'Egitto. Interessante a tal proposito, nel 2019, l’auspicio di normalizzazione con Israele da parte del ministro degli Esteri cirenaico, Abd al-Hadi al-Haj, che ha evidenziato una convergenza in chiave antiturca: Tel Aviv può effettivamente nutrire interesse nell’appoggiare le fazioni libiche orientali, sostenute da Francia, Egitto, Russia ed EAU contro il Governo tripolino, patrocinato dalle NU ma appoggiato da Qatar e Turchia, che spingono verso Fratellanza Musulmana e Hamas.
Non è un mistero che in Turchia si dicano certi che entro i prossimi 10 anni Ankara irradierà a Tripoli la stessa influenza esercitata oggi a Mogadiscio; del resto, guardando alla storia passata, la valenza geopolitica libica è evidente: considerando il Nord Africa quale confine difendibile dell’Anatolia, se gli ottomani avessero mantenuto la Libia, avrebbero potuto affrontare i nemici nel Mediterraneo orientale, allontanando la minaccia dal suolo patrio.
La Libia rimane un Paese diviso in tre settori, delineati internamente con poca chiarezza: la Tripolitania controllata dal GNA, la Cirenaica in mano all’LNA di Haftar, il Fezzan, dove imperversano entità non statuali spesso in combutta con organizzazioni terroristiche e criminali. Con i turchi a Tripoli ed i russi in Cirenaica, e con la prospettiva della installazione di loro basi militari su territorio libico, si crea di fatto un gap geopolitico che interessa direttamente l’Italia, che ha puntato ad un’improbabile soluzione politica attraverso un governo di consenso nazionale foriero di rapporti confinari con potenze per Lei inedite.
Oltre ad un presente caratterizzato da una politica estera incerta e pencolante tra Tripoli e Tobruk, come dimostrato dalla liberazione dei pescatori Mazaresi, che ha definitivamente messo fine alla leggenda del protagonismo italiano decantato dalla Farnesina, rimangono i dubbi riguardanti un futuro indecifrabile. Quel che è certo, è che la Turchia sta addestrando la Guardia costiera con i mezzi navali donati dall’Italia a Tripoli, un casus che evidenzia un approccio geopolitico più volitivo di quello di Roma, che ha visto scemare la propria influenza in Tripolitania guadagnando tuttavia molto poco in Cirenaica.
Spicca dunque la necessità di trovare un punto di sintesi che appiani la rivalità tra le varie milizie libiche, in particolare tra quelle tripoline e quelle più aggressive di Misurata, ma anche tra le mire delle potenze straniere che orientano l’evoluzione della crisi; non da ultima rimane la querelle che concerne la ripartizione delle risorse petrolifere, a cui è particolarmente attento Haftar, secondo una soluzione compatibile con le aspirazioni di tutti i convenuti al tavolo dei negoziati.
Un cartoon del 2011, che intendeva rappresentare la transizione verso una nuova Libia democratica come un insolubile cubo di Rubik, potrebbe essere riproposto senza alcuna variante sostanziale nel 2021, e senza primavere autoctone e non eterodirette in vista. Sotto questo aspetto suscita interesse quella che potrebbe essere la politica estera dell’Amministrazione Biden in relazione alla presenza di mercenari russi, e che deve decidere se confermare o meno le linee politiche di Obama, cui sono rimasti in eredità l’assalto al Consolato di Bengasi e l’assassinio dell’ambasciatore Stevens.
L’attuale evoluzione politica trova spunto nell’ambito del Libyan Political Dialogue Forum (LPDF) e negli incontri di Hurghada in Egitto, in cui si è giunti ad un accordo preliminare utile a sottoporre la proposta costituzionale del 2017 a referendum per la ratifica, una base giuridica indispensabile per le elezioni presidenziali e politiche del 24 dicembre 2021. A fronte della rilevanza della posta in gioco, è tuttavia evidente che manchi un consenso sociale più ampio, tanto più che la legge referendaria si basa sul presupposto della maggioranza in tutte e tre le regioni storiche3: inutile dire che la mancanza di un accordo bloccherebbe il processo di transizione politica, che verrebbe comunque inficiato dalle carenze in tema di organizzazione di governance, relativamente alla distribuzione del potere politico e delle risorse statali.
In sintesi, la proposta costituzionale del 2017 è fortemente insufficiente in quanto a basi istituzionali e securitarie, ed è sbilanciata verso un sistema presidenziale pervasivo con una debole decentralizzazione, che non compendia e non compensa le varie esigenze delle diverse parti del Paese. Il 5 febbraio il LPDF, dopo aver votato sulla leadership per il suo consiglio esecutivo, ha prescelto quale primo ministro a interim l'ingegnere Abdul Hamid Dabeiba (foto), ricco uomo d'affari che aveva guidato la Libyan Investment and Development Company, il fondo sovrano avviato da Gheddafi nel 2007, una figura di compromesso, vicina a posizioni islamiste, rispetto ai due favoriti che rappresentavano ambedue le fazioni in conflitto, Aguila Saleh, presidente del Parlamento di Tobruk, e Fathi Bashagha.
Capo del consiglio presidenziale è l’ex ambasciatore Mohammad Younes Menfi; seguono Moussa al-Koni, rappresentante della minoranza Tuareg, e Abdallah Hussein al-Lafi, dalla città occidentale di Zuwara. Per molti players esterni si è trattato di un voto a sorpresa, inclusa la Russia, che con Ankara e Cairo, era certa del successo di Bashagha, tuttavia non così poi prediletto dal Cremlino per effetto di una controversa vicenda riguardante la detenzione di cittadini russi4, e dal presidente della Camera dei Rappresentanti Aguila Saleh5; Russia che, in un lungimirante esercizio di realpolitik, ad appena una settimana dal voto, ha ricevuto delegazioni di ambedue le parti, dall’est e dall’ovest della Libia, secondo la non trascurabile ottica di trovare una valida alternativa ad Haftar. La sensazione è che l’LPDF anziché plasmare un consenso politico condiviso abbia evidenziato la mancanza di una vision comune tra i 4 leader eletti alla guida del nuovo esecutivo.
Quadro istituzionale. L'inviato speciale ONU e capo di UNSMIL6 Jan Kubis ha sottolineato che il primo ministro Dabeiba ha il compito di formare il suo governo entro 21 giorni, con l’immediata approvazione da parte della Camera dei rappresentanti di Tobruk a cui far seguire il passaggio dei poteri dal GNA; qualora la Camera non appoggiasse il neo-governo, la decisione tornerebbe nelle mani del LPDF.
Oggettivamente, il percorso che separa la Libia dalle urne appare impervio, visto che al momento GNA e LNA sembrano intente a sfruttare il cessate il fuoco per ricostituirsi in vista della ripresa delle ostilità, mentre migliaia di combattenti stranieri rimangono nel Paese ben oltre la scadenza stabilita7 per l’uscita dai confini. Le NU, di fatto, sia pur inconsapevolmente, hanno agevolato la permanenza al potere di specifiche elite; in più, Dabeiba, nelle sue prime dichiarazioni, ha inteso ringraziare la Turchia, ribadendo la volontà di approfondire le relazioni bilaterali con Ankara, che a sua volta intende fornire la massima legittimazione possibile al governo nord africano peraltro con un certo successo, dati gli immediati contatti tra i nuovi amministratori libici ed il presidente Macron. Politicamente, tuttavia, il tutto sembra avere caratteristiche tattiche.
Il governo ad interim è più debole del GNA e, come quest’ultimo, non rappresenta la Cirenaica; in più non emergono legami solidi con le forze presenti a Tripoli, tanto che la neo costituita Autorità di Sostegno alla Stabilità, composta dai leader delle più importanti milizie tripoline e comandata da Abdel Ghani al-Kikli, capo della Abu Salim Central Security Directorate, sembra che non abbia riconosciuto l’esito del voto, facendo presagire una mancanza di legittimità.
Il fatto che l’esecutivo manchi di base solida e di reale affiliazione politica, potrebbe teoricamente consentire di compendiare una più vasta gamma di fazioni, ma senza che questo abiliti il nuovo governo a superare le divisioni. L'elemento più diretto che riguarderà il nuovo esecutivo sarà la posizione di Haftar, le cui forze controllano la Libia orientale e centrale. Il delegato dell’oriente libico nel Consiglio di presidenza, Mohamed al-Menfi (foto), ex ambasciatore in Grecia espulso dopo gli accordi sui confini marittimi tra Tripoli ed Ankara, è un esponente dell’islam politico vicino a Tripoli, quindi non in linea con Tobruk e Bengasi. Tutti questi elementi di incertezza portano a considerare come possibile il ritorno all’opzione militare di Haftar. Il governo ad interim, inoltre, non rappresenta neanche l’intera Tripolitania, mentre manca la rappresentanza delle milizie di Misurata, che hanno sostenuto lo sforzo bellico contro Haftar, e che si riconoscono in Bashagha.
In sintesi gli attori, in attesa delle determinazioni americane, nel valutare se sia più opportuno riprendere i combattimenti o procedere ad una spartizione del potere, potrebbero lasciare il nuovo esecutivo in un limbo di scarsa rappresentatività senza avere la possibilità di unire il Paese in vista delle elezioni.
In conclusione, l’ONU non sembra aver convenientemente calcolato tutti gli aspetti, per cui permane il rischio di una forte instabilità che il lavoro della delegata NU uscente, Stephanie Williams non è riuscita ad evitare, avendo puntato sui grandi sconfitti Bashagah e Saleh, ed avendo dato come uscito di scena Haftar, un attore che, malgrado tutto, e salvo imprevisti, intende avere ancora un ruolo.
Ipotesi. Lasciando l’Italia alla finestra, il neo governo libico sembra essere troppo debole per resistere alle pressioni interne e comunque la sua politica potrebbe alimentare i tentativi di escalation violenta da parte degli esclusi.
Soluzioni. Haftar è l’unico soggetto forte, ma non abbastanza da imporre una politica comune, almeno fino a quando non si accetterà un’autonomia federata delle 3 regioni libiche con un accordo sulle mutue percentuali dalla rendita petrolifera.
Analisi dedicata "a Giuseppe Raffin, Uomo ed Ufficiale che ora ci guarda dalla prima stella più splendente del Carro dell'Orsa. Buon vento Comandante."
1 Vd. Nagorno Karabakh
2 Government National Accord
3 Cirenaica a est, Tripolitania a ovest e Fezzan a sud
4 Al Monitor
5 presidente della Camera dei Rappresentanti
6 Missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia
7 23 gennaio
Foto: web / Twitter