La Cina alla conquista delle terre rare afghane

(di Antonio Vecchio)
23/08/21

I recenti eventi in Afghanistan, con l’approssimativa e frettolosa ritirata americana, hanno messo in luce sin da subito l’interesse della Cina a sviluppare buoni rapporti con i Talebani.

Un atteggiamento, se vogliamo incoerente, con la politica persecutoria contro la minoranza turcofona musulmana degli Uiguri, abitanti la regione nordoccidentale dello Xinjiang.

Ci saremmo, infatti, aspettati da Pechino, nei confronti del nuovo vicino, segnali di avvertimento a non interferire con aiuti e ospitalità alle formazioni musulmane che si oppongono dall’interno del paese all’autorità cinese, ma le dichiarazioni ufficiali di questi giorni sono invece andate in tutt’altra direzione, e hanno offerto al neo insediato governo di Kabul un ampio riconoscimento e la massima collaborazione.

Nei piani di Xi Jinping figura verosimilmente quello di “annettere” lo stato centro asiatico al mega progetto denominato Belt and Road Initiative (BRI), che già coinvolge i paesi confinanti del Pakistan, Tajikistan e l’Uzbekistan.

Ma sono soprattutto le mire sulle ingenti riserve minerarie afghane, anche di terre rare, a condizionare maggiormente la politica di Pechino.

Occorre riconoscere che, a dispetto della lunga presenza occidentale nel paese, la Cina ha mostrato in questo settore maggior pragmatismo degli USA.

Già nel 2007, infatti, la compagnia mineraria statale cinese1 China Metallurgical Group Corp (MCC) ottenne dal governo di Kabul un contratto per lo sfruttamento trentennale dei depositi di rame di Mes Aynak. Un progetto dal valore di quasi 3 miliardi di dollari che potrebbe arrivare a garantire una produzione di 343mila tonnellate di rame all’anno e la creazione di decine di migliaia di posti di lavoro.

Basti pensare che le riserve di Mes Aynak, tra le più grandi al mondo, potrebbero contenere sino a 5,5 milioni di tonnellate di rame di alta qualità.

Gli Stati Uniti, al contrario, nei vent’anni di occupazione del paese, si sono solamente limitati a constatarne le ingenti risorse minerarie, senza avviare alcun programma di sfruttamento.

Nel 20062, l’agenzia scientifica governativa americana, U.S. Geological Survey (USGS), concluse, dopo una attenta indagine geologica che, il solo distretto di Khanneshin, nella provincia di Helmand, custodiva fino a 60 milioni di tonnellate di rame, 2,2 miliardi di tonnellate di ferro, e, soprattutto, 1,4 milioni di tonnellate di Terre rare (Rare Earth Elements, REE).

Per non parlare dei numerosi giacimenti di alluminio, oro, argento, zinco, mercurio e litio.

Numeri di tutto rispetto, che già allora, consacravano l’Afghanistan come il paese con le maggiori riserve di REE al mondo.

Ma che, inspiegabilmente, non portarono ad alcuna “messa in sicurezza” dei giacimenti da parte americana, e basterebbe solo questo, per comprendere come la ventennale presenza USA in quella terra non abbia mai valicato una dimensione meramente militare. Il che, spiega, tra l’altro, il fallimento cui stiamo assistendo in questi giorni.

Il disinteresse USA verso le ricchezze minerarie afghane si è consumato, fatto ancor più grave, nonostante la superpotenza, (fatta sola eccezione per l’era Trump), sia stata tra i maggiori sponsor della transizione energetica in atto, ovvero del “passaggio dall'utilizzo di fonti energetiche non rinnovabili (petrolio e carbone ndA) a fonti rinnovabili3 (….)”.

Una transizione che non accade per la prima volta, ma che ha già avuto luogo col passaggio dal legno al carbone nel XIX secolo e con quello dal carbone al petrolio nel XX secolo.

Nel primo caso, agli albori della prima rivoluzione industriale, l’Impero britannico si assicurò il monopolio globale del carbone, egemonizzandone la produzione mondiale e i canali di distribuzione verso le proprie industrie.

Nel secondo, nel XX secolo, furono invece gli USA, potenza agli albori della sua ascesa, a comportarsi come gli inglesi avevano fatto un secolo prima, nei confronti, questa volta, di un particolare olio nero di origine fossile, che sgorgava naturalmente dal terreno, e che, una volta estratto e raffinato, svelava un potere energetico superiore anche a quello del combustibile fossile minerale.

In entrambi i casi, il controllo su produzione e fonti di approvvigionamento si rivelò il tratto distintivo dei due Imperi.

Appare, pertanto, particolarmente curioso che l’attuale transizione energetica, promossa tra l’altro dal mondo occidentale, veda oggi non gli Stati Uniti, ma la Cina nella posizione che Gran Bretagna e USA ebbero nei secoli scorsi.

Un ruolo che non deve sorprendere, considerato che Pechino, con grande lungimiranza e capacità di guida politica (Deng Xiaoping sosteneva che “se il petrolio è l’oro degli Arabi, la Cina ha le terre rare”), ha saputo, negli anni, costruirsi una posizione di monopolio su gran parte di quelle materie prime che, proprio come accadde in passato con il carbone e il petrolio, rendono oggi possibile l’attuale transizione energetica.

Parlo di un ristretto gruppo di metalli rari, considerati indispensabili per i due pilastri della transizione energetica 4.0: le energie rinnovabili con bassa emissione di carbonio e il digitale.

Metalli, che la Cina estrae sul proprio territorio per oltre il 60% dei volumi globali, e che produce per il 90%.

Questi rispondono a nomi esotici come Gallio, Germanio, Antimonio, Niobio, Silicio metallico, Tantalo, Tungsteno, ecc. Comprendono, inoltre, i metalli del gruppo del platino (Rutenio, Rodio, Palladio, Osmio, Iridio e Platino) e un ulteriore gruppo di 17 elementi, le Terre rare per l’appunto, con particolari proprietà magnetiche, che li rendono idonei per la gran parte delle tecnologie verdi.

Sono questi ultimi: il Lantanio, il Cerio, il Praseodimio, il Neodimio, il Promezio, il Samario, l’Europio, il Gadolino, il Terbio, il Disprosio, l’Olmio, l’Erbio, il Tulio, l’Itterbio, il Lutezio, lo Scandio e l’Ittrio.

Le REE, per le loro qualità chimico-fisiche, sono impiegate nell’industria dell’elettronica, per la produzione di smartphone, tablet, computer, elettrodomestici e televisori; in campo medico nell’ambito di trattamenti oncologici e per gli apparati di risonanza magnetica (MRI); nell’industria della difesa, dove vengono usate per la costruzione di droni, di sistemi radar, sonar, laser e di guida, e come componenti dei motori a reazione dei missili.

La quantità di RRE varia a seconda delle applicazioni: in un cellulare troviamo 50 millligrammi, in un condizionatore invece 120g, in una macchina Toyota PRIUS 15 kg, in un aereo F-35, sino a 416 kg.

Le quantità salgono a 1818 kg in un nave da guerra e addirittura raddoppiano in un sottomarino militare.

Possiamo allora aspettarci che la Cina continuerà anche in Afghanistan le politiche di acquisizione già compiute in giro per il mondo, con l’intento di mettere in sicurezza l’estrazione e le catene di approvvigionamento di queste speciali materie prime.

In Africa, ad esempio, dove, nel tempo, è diventata il primo investitore estero del continente, è già molto presente grazie alla Belt and Road Initiative.

Sul continente nero, vi sono depositi di terre rare un pò ovunque, soprattutto nei paesi dell’Africa orientale e meridionale, come Sudafrica, Madagascar, Malawi, Kenya, Namibia, Mozambico, Tanzania, Zambia e Burundi.

Molti di questi siti sono ancora in attesa di essere sfruttati: come in Namibia (Lofdal Heavy Rare Earths Project), Malawi (Kangankunde), Angola (Longonjo Project), Tanzania (Ngualla Rare Earth Project), Uganda (Makuutu Project) Madagascar (Tatalus) Mozambico (Xiluvo REE Project) e Sudafrica (Glenover e Phalaborwa Project).

L’Africa è un continente promettente anche per la vulnerabilità economica dei suoi stati, molti dei quali hanno già accumulato prestiti che non sono più in grado di onorare, come la Repubblica del Congo e il Mozambico.

Anche Ciad, Eritrea, Somalia, Sud Sudan, Sudan e Zimbabwe sono a rischio default, e rischiano di esserlo presto anche Zambia e Repubblica Centrafricana.

Condizioni che la Cina sfrutta negoziando dilazioni nelle restituzione dei prestiti con i diritti di estrazione e licenze di utilizzo di aree portuali (come avvenuto in Sri Lanka).

Ma la penetrazione cinese non avviene solo in Africa.

Acquisendo progressivamente quote azionarie nelle principali società locali, le aziende cinesi si sono posizionate, senza destare la minima preoccupazione da parte dei governi locali, anche in Brasile, ricco di niobio, e Australia, di tantalio4.

E anche in Cile, Argentina e Australia, tutti ricchi di litio, grazie alle cui risorse, la Cina in soli sei anni, è riuscita a dominare il mercato globale del minerale - utilizzato nella produzione di batterie dei veicoli elettrici, in quelle dei computer e smartphone, e nelle industrie del vetro e della ceramica - con oltre il 59% delle risorse mondiali ora sotto il suo controllo.

In Argentina, le aziende cinesi detengono partecipazioni per il 41% dei principali progetti di estrazione del litio, pari al 37% delle riserve nazionali.

Oggi la Cina controlla il 41% della produzione argentina di terre rare5 e il 37% delle sue riserve.

In Australia, invece, aziende cinesi hanno acquisito partecipazioni per il 91% dei progetti di estrazione di litio in corso, e il 75% delle riserve del paese, tra le più grandi del mondo.

E la lista potrebbe continuare includendovi Brasile (100% della produzione) e Sudafrica dove due terzi di tutti i principali siti di estrazione e lavorazione di terre rare sono partecipati da aziende cinesi.

Al pari di quanto avvenuto in altre parti del globo, il decennio appena iniziato vedrà certamente l’intensificarsi dei rapporti tra Pechino e Kabul.

Armi, tecnologia e denaro, tanto denaro, affluiranno copiosamente verso l’Afghanistan, che cederà in cambio diritti di estrazione e corridoi per la BRI.

In tal modo, Pechino diventerà sempre più arbitro dell’attuale transizione energetica, e padrone incontrastato del continente asiatico.

5 https://www.huffingtonpost.it/entry/meno-elmetti-piu-caschetti-perche-al...

Foto: Ministry of National Defense of the People's Republic of China / web / U.S. DoD / Lockheed Martin / Xinhua