Vi spiego perché da 600 giorni, Xi Jinping non esce dalla Cina

(di Antonio Vecchio)
22/09/21

Il 22 marzo 2013 era appena iniziata l’era di Xi Jinping, da poco eletto segretario del partito comunista cinese (PCC) e presidente della repubblica popolare (RPC), e il suo primo viaggio in Russia non destò più di tanto clamore.

Era naturale che Mosca rappresentasse per Pechino il partner asiatico più importante, crocevia geopolitico obbligato per una nazione che si avviava a consolidare la postura internazionale.

La visita si rivelò un successo, conclamato dall’esibizione finale della moglie del nuovo timoniere, a sua volta generale dell’esercito popolare di liberazione (EPL) e cantante lirica apprezzata, che assieme al coro dell’ex Armata Rossa cantò, in russo e cinese, una famosa canzone popolare dell’epoca sovietica.

In tutti questi anni, Xi Jinping ha svolto molte visite all’estero, particolarmente seguite dall’opinione pubblica mondiale, a tratti rassicurata dal volto pacioso del leader cinese.

Non poteva pertanto non destare stupore, la notizia della sua prolungata assenza al di fuori della Cina: è dal 18 gennaio 2020 (ultima visita ufficiale in Malesia), infatti, che Xi non varca i confini.

Seicento giorni in cui ha percorso in lungo e largo l’immenso territorio cinese, dedicandosi prevalentemente al fronte interno, per la lotta alla pandemia, il rilancio dell’economia, costantemente impegnato a consolidare la centralità del PCC come somma autorità regolatrice del paese.

La notizia non deve certo far pensare a un momento di stasi della politica estera di Pechino, proseguita evidentemente senza soluzione di continuità. Evidenzia piuttosto una qualche subalternità che tradizionalmente le funzioni esterne del paese hanno nei confronti degli affari interni.

Ed è perfettamente in linea con la tradizione diplomatica cinese, che Henry Kissinger ha egregiamente cristallizzato nel suo testo fondamentale sul colosso asiatico1, quando descrive i ministri degli affari esteri cinesi con cui si è interfacciato come segretario di stato, come semplici funzionari d’alto rango, il cui unico compito era quello di riceverlo in aeroporto e accompagnarlo dal segretario generale del PCC in carica.

Nulla più che un ruolo di accompagnamento e anticamera, senza alcuna effettiva autonomia di azione.

I cinesi sono stati sempre poco interessati a quello che avveniva all’esterno dei loro confini, i quali, lungi dal costituire un mero elemento fisico, hanno sempre segnato un limes culturale e di civiltà.

La creazione di un ministero per gli affari esteri è infatti relativamente recente: solo nel 1861, i Cinesi decisero di costituire una sorta di dicastero con funzioni analoghe a quelle di un ministero degli affari esteri, responsabile di esercitare il mestiere della diplomazia, come funzione separata e indipendente del governo.

La cui sede, non a caso, fu collocata in un vecchio e anonimo edificio, in precedenza utilizzato come zecca di stato, proprio a significare la minor dignità, rispetto alle altre funzioni ufficiali, di quella che doveva occuparsi dei rapporti con gli altri stati.

D’altronde, per una nazione che da sempre si percepisce il centro del mondo, tutto diventa periferia, i rapporti con la quale, fuori dalla retorica ufficiale, rappresentano un inutile orpello.

Si tratta di un’innata autoreferenzialità nazionale, che emerge plasticamente nella particolare “forma stilistica” con cui, nel 1863, l’imperatore cinese partecipò ad Abraham Lincoln la volontà di intrattenere buone relazioni con gli Stati Uniti: “avendo, con riverenza, ricevuto dal Cielo il mandato di governare l’intero universo, Noi consideriamo sia il Regno di Mezzo che i paesi posti al suo esterno, come facenti parte di una unica famiglia, senza alcuna distinzione2

È una autoreferenzialità, figlia, come abbiamo più volte scritto su queste pagine, di una concezione gerarchica, di derivazione confuciana, in base alla quale Pechino si pone al vertice di qualsiasi sistema di relazioni, in diplomazia, così come nelle questioni di politica interna.

Per i cinesi, infatti, ogni cittadino (ogni stato) deve sapere il posto che gli spetta nella società (nella comunità delle nazioni), e comportarsi di conseguenza, riconoscendo al partito (alla Cina) una posizione di assoluta centralità.

Vista da questa prospettiva, l’assenza di Xi Jinping all’estero è perfettamente in linea con la millenaria tradizione di una potenza incentrata esclusivamente su se stessa. Una nazione introflessa, che intesse svogliatamente rapporti con la “periferia”.

Son le altre nazioni, semmai, che devono ricercare buone relazioni col governo di Pechino, uniformandosi ai suoi diktat. Sono loro, piuttosto, ad avere bisogno di burocrati di alto rango che si occupino a tempo pieno di intessere rapporti con Pechino.

La Cina provvederà ad accoglierle, se lo riterrà necessario, nella sua “cosmogonia”, il sistema valoriale e culturale che da 5mila anni proprio nella Cina vede il suo baricentro, e che (solo) i paesi culturalmente affini possono assimilare completamente.

Questo non significa che la Cina attuale non abbia la necessità di rapportarsi all’esterno, di rivolgersi all’intero tianxia3.

Deve certamente farlo, in primis per realizzare il faraonico progetto della “via della seta”, spinta dalla necessità di governare la crescita economica incessante, per distribuire uniformemente il reddito e raggiungere gli strati sociali non ancora lambiti dal progresso economico di questi ultimi decenni.

Globalizzazione e multilateralismo, su cui si fonda la postura internazionale del paese di mezzo, implicano una continua interrelazione con l’esterno.

Ma questo non comporta necessariamente - ecco la particolarità cinese - che il segretario del PCC debba spendersi all’estero in prima persona.

Proprio come accadeva con gli imperatori della dinastia Ming, che si limitavano a ricevere vassalli e paesi stranieri nelle proprie corti, dispensando privilegi e tasse, e legando questi alla Cina, con un’accorta strategia del “divide et impera”.

O con l’imperatore Qianlong, che nel 1793 cacciò dalla Cina l’ambasciatore britannico George Macartney4, giunto nel paese5 in visita ufficiale, dopo che questi si era rifiutato di compiere il gesto tradizionale di sottomissione, inginocchiandosi tre volte al suo cospetto e chinando la testa fino a toccare il suolo per onorare la divinità del sovrano.

La Cina che Xi sta ricostruendo è imperiale, fortemente verticistica al suon interno.

Dopo i secoli dell’umiliazione e della rinascita economica, il leader vuole ricollocare il paese al centro del Tianxia.

E nel farlo, come ai tempi degli imperatori che governavano gli affari dello stato senza mai abbandonare la città proibita, può permettersi di limitare le sue uscite a quelle necessarie (privilegiando soprattuto i fora internazionali come Davos), delegando il lavoro sul campo ai suoi emissari diretti, primo fra tutti, l’onnipresente ministro degli esteri, Wang Yi.

E poi c’è dell’altro.

Nella sua azione, Xi non ha tralasciato di collegare l’apparato del Partito ai 50 milioni6 di cinesi d’oltremare, la maggior parte dei quali vive nel Sud-est asiatico, dove costituiscono la maggioranza della popolazione di Singapore (75%) e popolazioni minoritarie significative in Malaysia (23%), Tailandia (14%) e Brunei (10%).

Per non parlare degli oltre 2 milioni in Europa, degli 8 milioni circa nelle Americhe e del milione e mezzo in Oceania.

Questa massa di cittadini, tutti di etnia han, sono oggi potenziali terminali del Partito Comunista cinese, in grado di svolgere compiti di raccordo con le autorità e i centri di potere locali, per indirizzare le pubbliche opinioni sui disegni cari a Pechino.

E sono anche sensori, pesci di acqua profonda7(Cristadoro, 2021), migliaia di agenti intenti a raccogliere negli ambienti di lavoro, nella società, nel mondo culturale, industriale accademico, svariate informazioni, magari grezze e apparentemente insignificanti, da riversare nei canali dell’intelligence nazionale.

E’ un sistema piramidale, che origina nei tanti paesi in cui la diaspora cinese è presente, e fa capo al dipartimento del fronte unito del comitato centrale del partito comunista cinese (UFWD), che dipende direttamente dal comitato centrale del partito.

L’UFWD tenta così di influenzare individui e organizzazioni d'élite all'interno e all'esterno della Cina, cercando di garantire gli interessi del PCC e dividere i potenziali detrattori.

Il “guanxi", la rete di relazioni familiari e associative, poi fa il resto, fungendo da cinghia di trasmissione del potere centrale, e facilitandone l’azione politica anche all’estero.

Perché stupirsi, allora, se il leader supremo decida di rimanere a casa per 600 giorni?

1 On China di H. Kissinger

2 ibidem.

3 Tianxia (cinese: 天下) è un termine cinese per un antico concetto culturale cinese che indicava l'intero mondo geografico o il regno metafisico dei mortali e in seguito divenne associato alla sovranità politica. Nell'antica Cina, la tianxia indicava le terre, lo spazio e l'area divinamente nominati dall'imperatore con principi di ordine universali e ben definiti. Il centro di questa terra fu assegnato direttamente alla corte imperiale, formando il centro di una visione del mondo che si concentrava sulla corte imperiale e si concentrò esternamente verso i funzionari maggiori e minori e poi i cittadini comuni, gli stati tributari, e infine si concluse con la frangia “barbari". (https://wikiita.com/tianxia).

5 Il diplomatico britannico dovette pure accettare di issare sul suo vascello un drappo con su scritto “contribuente dall’Inghilterra”.

7 “La mossa del Drago” di N. Cristadoro, Ed. Maglio (2021) pag. 152

Foto: Xinhua News / web