Gli eventi di questo 2021 in Afghanistan hanno segnato profondamente la coscienza collettiva delle opinioni pubbliche dei paesi occidentali. La fulminea avanzata dei Talebani ed il collasso della Repubblica Islamica dell'Afghanistan, per 20 anni sostenuta e foraggiata dagli Stati Uniti d'America e da non meno di 44 altri paesi alleati, ha profondamente screditato sia gli USA che la stessa NATO, sotto il cui ombrello gli occidentali si erano imbarcati per quella che, a tutti gli effetti, è stata una missione di “nation building” di sapore vagamente coloniale conclusasi nel peggiore dei modi e che ha fatto letteralmente impallidire l'intervento sovietico degli anni 1979-89.
Sebbene già ora il nuovo disastro afghano stia venendo studiato per trarne le dovute lezioni dal punto di vista sia politico che militare, altrettanto fondamentale è capire che tipo di percorso prenderà ora l'inospitale paese centro-asiatico e se esso si trasformerà in una cosiddetta “fabbrica di instabilità”.
Uno strumento a nostra disposizione che può in verità aiutarci molto da questo punto di vista è l'analisi demografica, dato che, come affermato già diverse volte in passato, la demografia rappresenta un utilissimo strumento che può fungere, per così dire, da “termometro” per capire che tipo di percorso evolutivo o involutivo una determinata società sta prendendo e, ad onor del vero, quella afghana non rappresenta affatto un'eccezione. Tuttavia il caso afghano si presenta particolarmente ostico perché questo paese a cavallo tra Cina, Asia Centrale, Grande Medio Oriente Allargato e Subcontinente Indiano è anche un paese multietnico nel quale popoli di diverse origini e fedi religione sono stati costretti dalle onde della Storia a coabitare fianco a fianco, talvolta convivendo pacificamente e talvolta combattendosi aspramente. Non solo, l'ulteriore suddivisione tribale presente all'interno dei vari popoli che compongono il variopinto mosaico etno-religioso del paese fa sì che anche pure all'interno di ciascuno di questi “soggetti” siano presenti profonde fratture ed interminabili faide tribali e claniche che persistono anche quando gli afghani tutti sono impegnati a combattere quello che dovrebbe essere percepito come un comune nemico (come nel caso dell'invasione sovietica).
Tra i vari gruppi etnici che compongono il paese, un posto di preminenza viene senza dubbio ricoperto dai Pashtun. Noti anche nel Subcontinente Indiano con il nome di “Pathan”, i Pashtun sono in realtà gli “Afghani veri e propri”, dato che anticamente, il termine in lingua persiana “Afghani” era utilizzato per identificare proprio i Pashtun. Si capisce quindi che se il termine “Afghani” può essere utilizzato come sinonimo di Pashtun, allora anche il termine “Afghanistan” (la terra degli Afghani) sarebbe in realtà il sinonimo di “Pashtunistan” (la terra dei Pashtun). Al giorno d'oggi però la cose sono cambiate e gli Afghani sono tutti gli abitanti del territorio dell'Afghanistan indipendentemente dall'origine etnica, dando quindi un'accezione assai più inclusiva di tale termine. Quello che però non è assolutamente cambiato è invece il ruolo che i Pashtun hanno mantenuto all'interno dell'Afghanistan (e del vicino Pakistan) tanto che risulta pressoché impossibile capire le vicende afghane senza prima analizzare questo popolo tanto temuto quanto misterioso. Per questa ragione, la presente analisi sarà dedicata unicamente proprio allo studio dei Pashtun, lasciando invece la demografia afghana nel suo complesso ad una puntata successiva.
Per cominciare, bisogna dire che dal punto di vista culturale e linguistico, i Pashtun sono classificati come il più numeroso popolo iranico al mondo, anche più numerosi dei Persiani e dei Curdi. Sebbene non sia chiaro quanti Pashtun ci siano nel complesso, dato che nel coso degli ultimi 2 secoli si è creata una vasta diaspora in aree ben lontane dalla loro principale zona di stanziamento, il nucleo irriducibile di questo popolo è costituito da circa 60 milioni di individui (pari alla popolazione italiana) stanziati principalmente negli altipiani situati a cavallo tra i moderni stati dell'Afghanistan e del Pakistan, in un'area che colloquialmente è detta per l'appunto “Pashtunistan”. Il paese dove vive il più alto numero di Pashtun è la Repubblic Islamica del Pakistan, dove essi sono presenti in non meno di 45 milioni e dove rappresentano il secondo gruppo etnico dello stato, superati solamente dai Panjabi (i “Pakistani veri e propri”).
In Afghanistan vivono invece circa 15 milioni di Pashtun ed essi hanno svolto un ruolo fondamentale nella creazione del paese odierno. Tradizionalmente i Pashtun hanno costituito anche la maggioranza assoluta della popolazione afghana tuttavia il massiccio afflusso di Tagiki, Uzbeki e Turkmeni dall'Asia Centrale all'epoca delle repressioni staliniane ed il successivo boom demografico che ha caratterizzato le minoranze nel corso di tutto il XX secolo hanno ampiamente rimescolato le carte in tavola.
Non solo, dato che l'ultimo censimento afghano risale al 1979, è oggi impossibile dare dei numeri precisi e la percentuale della popolazione pashtun sul totale di quella afghana viene variamente riportata in una forchetta compresa tra un minimo del 42% ed un massimo del 53%. Ciò significa che, nel migliore dei casi, i Pashtun hanno conservato una maggioranza assoluta, seppur risicata, mentre nel peggiore l'avrebbero addirittura persa, conservando solamente quella relativa.
Anche in quest'ultimo caso, però, il “popolo delle colline” rappresenta in ogni caso il gruppo etnico più forte dell'Afghanistan e quello del quale bisogna avere l'aperto od il tacito sostegno se si vuole riuscire a governare il paese. Dal punto di vista sociale, i Pashtun sono divisi in non meno di 400 tra tribù e clan, alcune molto piccole (come per esempio la tribù degli Hotak, che diede i natali al primo leader dei Talebani, il mullah Mohammed Omar) altre invece molto grandi (una fra tutte, la tribù dei Durrani, che conta milioni di individui e che ha dato i natali ai membri dell'omonima dinastia fondatrice del moderno Afghanistan nel 1747 ed il cui capostipite, Ahmad Shah Durrani, è ancora oggi venerato come il “padre fondatore” del paese da tutti gli Afghani in un culto che rivaleggia quelli che in Turchia è riservato al “Gazi” Mustafa Kemal Atatürk).
Dal punto di vista famigliare, la società pashtun è caratterizzata dalla presenza della cosiddetta “famiglia comunitaria endogama”. Ciò vale a dire che essa è caratterizzata da una forte solidarietà tra i membri maschi della stessa, in particolare i fratelli, e da una predilezione per il matrimonio tra cugini carnali. Nel caso non siano disponibili cugini, la famiglia pashtun può accogliere anche candidati provenienti al di fuori dell'alveo famigliare, ma molto raramente al di fuori dal contesto clanico e MAI al di fuori di quello tribale, per non parlare del matrimonio con individui di gruppi etnici o nazioni diverse; quest'ultima cosa è semplicemente una “bestemmia”. Ecco perché, nonostante il passare dei secoli, le numerosissime tribù pashtun non si siano mai fuse in una “nazione coerente”. L'impostazione sociale rigidamente endogamica e l'estrema frammentazione tribale fanno dei Pashtun l'ultima cosiddetta “società segmentata” esistente al mondo assieme agli Ebrei.
Molto si è dibattuto sull'origine dei Pashtun, e le prove pazientemente raccolte dagli studiosi nel coso di quasi un secolo e mezzo lasciano supporre un'origine eterogenea, diversa da tribù a tribù. Oltre all'origine eterogenea, i Pashtun sono interessati anche da una spaccatura linguistica dato che il primato del pashto, la lingua tradizionale del popolo, è stato con il tempo eroso dal dari (la variante afghana del persiano), già parlato dalle altre minoranze del paese, che ha prima attecchito tra le élite pashtun più acculturate ed è stato successivamente adottato anche da intere tribù. Ciò nonostante, i Pashtun sono riusciti a sopravvivere e a forgiare nel corso del tempo una cultura autonoma ed unificata basata attorno al loro sistema di vita consuetudinaria, denominato “Pashtunwali”. Esso si basa su una lunga serie di precetti e regole di condotta che plasmano a 360 gradi la vita di ogni pashtun, specialmente la componente maschile del popolo, un po' come le 613 mitzvot plasmano la vita di un pio ebreo. Tra questi precetti, i più importanti sono essenzialmente tre:
Melmastia: traducibile come “ospitalità”, afferisce all'abitudine dei Pashtun di mostrare tutto il loro rispetto nei confronti dei visitatori e degli stranieri, indipendentemente da razza, religione, cittadinanza, status economico. In una società dove il tenore di vita degli individui è assai ridotto, per usare un eufemismo, poter contare su un'ospitalità sincera senza avere alcun tipo di obbligo di ripagarla (al contrario di quanto avviene per esempio tra i popoli di origine turca), può aiutare molto nei momenti di difficoltà;
Nenawate: traducibile con “asilo”, “rifugio” descrive invece l'abitudine dei Pashtun di difendere sempre, a prezzo della propria vita coloro che, letteralmente, “bussano alla porta di casa per trovare rifugio dai loro nemici”. Si badi bene che questo tipo di aiuto in realtà travalica il mero e semplice “umanitarismo”. Se un supplice chiede aiuto per ottenere protezione o giustizia, nella logica culturale dei Pashtun, egli sta esplicitamente affermando la superiorità del Pashtunwali e la sua sottomissione ad esso. Ecco perché a quel punto i Pashtun hanno l'obbligo morale di difendere il “supplice”, perché se non lo facessero finirebbero anche per perdere la loro capacità di “deterrenza” nei confronti degli altri, chiunque essi siano. Riformulando in altri termini, i Pashtun devono sempre mantenere gli impegni di protezione presi con gli altri, sennò non verrebbero più né temuti né rispettati;
Badal: oggi tradotto pudicamente come “giustizia”, in realtà esso tradizionalmente rappresenta la “vendetta”, che può durare secoli ed essere ereditata di generazione in generazione. Il “Badal” è probabilmente il pilastro per antonomasia della cultura del popolo, e nessun uomo pashtun degno di questo nome vi rinuncerà mai perché tale rinuncia porterebbe alla perdita della virilità e della considerazione sociale che nemmeno la morte auto inflitta sarebbe in grado di lavare (al contrario di quello che capita, per esempio nella cultura giapponese dove il suicidio “ripristina la reputazione”). Anche quando la vendetta sembra impossibile, un uomo pashtun deve cercare di ottenerla in tutti i modi, morendo nel tentativo, se serve. È necessario però specificare che non sempre quello che nella nostra mentalità occidentale rappresenterebbe un atto criminoso grave possa necessariamente implicare l'applicazione del “Badal” da parte di un pashtun. In certe tribù pashtun infatti l'omicidio (persino quello di un bambino) può essere comodamente ammendato con una riparazione di natura pecuniaria nemmeno tanto esosa. Esemplificativa fu la reazione di un padre pashtun che, alla notizia della morte di uno dei suoi figli investito da una jeep blindata HMMWV dell'esercito americano, all'arrivo del comandante americano locale accompagnato dal soldato presunto responsabile del fatto, mostrò i suoi altri 12 figli e rispose: “Tranquillo amico, ne ho tanti”, e procedette a sgozzare un montone che venne poi cucinato e servito ad una grande tavolata organizzata in onore dei benvenuti “ospiti” americani. Viceversa, la notizia dello stupro di alcune donne pashtun da parte dei soldati sovietici nel corso della presa di Kandahar, ai primi del 1980 provocò l'istantanea ribellione di tutte le tribù acquartierate alla periferia della città, sommossa poi repressa solamente quando le forze dell'Armata Rossa fecero intervenire i bombardieri strategici che bombardarono i rivoltosi senza pietà. In questo caso si può vedere come nella logica pashtun l'onore delle donne (per altro “esseri” di proprietà assoluta del maschio) valga di più della vita dei bambini, che non essendo ancora “uomini adulti” non hanno gli stessi diritti ed i doveri degli altri.
Chi pensa che queste siano solamente fandonie o sciocchezze utili come esercizio culturale e nulla più, commette un errore gravissimo. Quando all'indomani degli eventi dell'11 settembre i diplomatici occidentali presero contatto con i Talebani per ottenere la consegna di Osama bin Laden e della leadership di al-Qaida, anziché agire in maniera intelligente e pretendere la sua testa facendo riferimento proprio al “Badal”, credendosi forti e pensando che i Pashtun sarebbero scomparsi dalla Storia come foglie al vento di fronte alle preponderanti armate dell'Occidente, essi si misero a minacciare il mullah Omar che invece si rifiutò di fare qualsiasi concessione. La ragione di tale comportamento non fu né la pazzia e nemmeno la cocciutaggine del leader talebano, bensì la consapevolezza che, cedendo alle minacce dello straniero, egli avrebbe fatto precipitare i Pashtun da una posizione di forza ad una di sudditanza, contravvenendo per di più al principio del “Nenawate”. Come disse lo stesso mullah Omar al giornalista pakistano (anch'egli di etnia pashtun) Rahimullah Yusufzai:
“Io non voglio essere ricordato nella Storia come colui che ha tradito un ospite. Io sono determinato a sacrificare la mia vita, il mio regime. Dato che gli abbiamo concesso rifugio, non possiamo cacciarlo via”
Sebbene alle orecchie di un occidentale questo discorso non abbia alcun senso, in realtà nella logica pashtun è di una chiarezza cristallina. Se infatti i Pashtun vengono meno ad uno dei fondamenti irrinunciabili della loro identità ed accettano un compromesso al ribasso persino su quello, allora che cosa rimane di loro? Non possono in alcun modo tradire l'unico elemento (il Pashtunwali) che li ha tenuti uniti (loro, popolo così eterogeneo, come abbiamo visto sopra) nel corso della Storia. Sarebbe come se gli Ebrei abbandonassero la religione che hanno ereditato dai loro antenati. Se lo facessero perderebbero sia la loro identità che l'unica arma di deterrenza che hanno non solo verso i nemici esterni ma anche tra loro stessi. Il risultato sarebbe il caos e l'anarchia. Ecco quindi perchè nel lontano 2001, il mullah Omar non ci consegnò bin Laden; non per farci sfregio o per bontà nei confronti del suo ingombrante ospite, ma a lungo andare per tenere uniti ed irregimentati 60 milioni di Pashtun viventi a cavallo tra Afghanistan e Pakistan.
Concludiamo qui questa rapida disamina dei Pashtun e della loro peculiare cultura per permettere meglio ai lettori di comprendere il contesto sociale di quella che è l'etnia dominante dell'Afghanistan e quella che ne ha sempre deciso il destino. Nella prossima puntata affronteremo invece il tema della demografica del paese nel suo complesso e l'effetto che i processi di modernizzazione e trasformazione avranno su questa società ancora largamente arcaica e quali potrebbero esserne gli esiti nel breve, medio e lungo periodo.
Foto: U.S. DoD