Titanic alla russa

(di Renato Scarfi)
17/03/22

In Ucraina, parallelamente ai crudi combattimenti sul terreno si fa sempre più accesa anche la battaglia delle informazioni. Alle immagini di ospedali bombardati dai russi, questi rispondono che le vittime sono solo degli attori, salvo poi constatare che quegli attori muoiono per gli effetti del bombardamento. Come ho già avuto modo di scrivere (leggi "Pozor Rossii (Vergogna Russa)"), la temeraria avventura di Putin in Ucraina si sta sempre più rivelando un harakiri politico e militare. E pensare che, prima del 24 febbraio Putin aveva gestito la crisi con rara maestria, da talentuoso giocatore di scacchi. Sostanzialmente aveva ottenuto tutto quello che voleva. Oggi, invece, è additato al pubblico ludibrio e con lui, meritatamente o meno, la Russia come entità geopolitica e i russi come popolazione.

Egli non è apertamente sostenuto neanche dal principale Paese che, fino a ieri, fieramente mostrava come partner economico e geopolitico, la Cina. È, infatti, indubbio che l’avventurosa esperienza di questa guerra abbia notevolmente innervosito il potente gigante asiatico anche se, da navigato e lungimirante politico, nell’attuale crisi Xi Jinping ha cinicamente intravisto alcune possibilità da sfruttare per l’ulteriore espansione dell’influenza economica e geopolitica cinese.

È “colpa” della NATO?

Tutto questo mentre alcuni osservatori europei si affannano a “giustificare” in qualche modo la condotta del leader russo, cercando di ridurne le responsabilità, attribuendone una parte alla NATO e, in particolare, alla sua espansione verso est. Giustificazioni che appaiono poco plausibili e facilmente confutabili dato che l’adesione alla NATO di parte dei Paesi dell’ex patto di Varsavia non è avvenuta in maniera forzata ma per espresso desiderio e chiara volontà dei protagonisti.

La formula secondo la quale i candidati vengono invitati a far parte dell’Alleanza è solo un modo per indicare che questa non è un albergo aperto a chiunque ne faccia domanda, ma che per accedere servono dei precisi requisiti. Solo chi negli anni novanta del secolo scorso aveva abbastanza primavere sulle proprie spalle ha potuto notare come, una volta crollato il muro di Berlino, alcuni Paesi hanno immediatamente chiesto l’adesione all’Alleanza, in modo da scongiurare un pericoloso “ritorno di fiamma” dell’assertività russa sul proprio territorio. Al tempo a molti è sembrata una corsa prematura, tant’è che solo dopo qualche anno si sono registrate le prime caute adesioni, seguite poi da altre negli anni duemila.

Quei Paesi, che ben conoscevano il sistema sovietico, preferivano vivere sotto l’ombrello della NATO che sotto la dittatura di Mosca. Una scelta che, alla luce dell’atteggiamento russo di oggi, non può non essere pienamente condivisa.

L’opportunismo della Cina

Tornando alle strane relazioni russo-cinesi, se da una parte è indubbio che Mosca sta correndo verso un drammatico default economico (non è riuscita a pagare agli investitori esteri le cedole sui bond che erano dovute il 16 marzo), è altrettanto indubbio che le pesanti conseguenze economiche della guerra e delle sanzioni costringeranno Putin a consegnarsi mani e piedi al solo Paese che può in qualche maniera permettergli il mantenimento di una qualche economia nazionale: la Cina.

Nell’eventualità della concessione di un aiuto, è presumibile che la leadership cinese starà bene attenta a non essere troppo generosa, in modo da mantenere la sua mano appoggiata alla testa di una Russia con l’acqua alla gola, pronta a fare pressioni qualora questa provasse a uscire dall’orbita di Pechino.

E, dato che a questo mondo non si fa nulla per nulla, per il suo eventuale sostegno economico al momento giusto Pechino passerà all’incasso. I cinesi allora non si accontenteranno di quello che la Russia prevedibilmente gli offrirà, che siano agevolazioni nell’acquisto di petrolio, gas, vodka o caviale, dato che la Cina può agevolmente acquistarli altrove, ma potrebbe pretendere i gioielli di famiglia, strumenti in grado di supportare le ambizioni di Pechino sul mare (leggi “La strategia marittima cinese”). Uno scenario veramente drammatico giacché si tratterebbe di un effettivo salto qualitativo, in grado di modificare gli equilibri strategici nell’Indo-Pacifico (leggi “La sfida cinese alla potenza navale statunitense”).

Tuttavia, non è ancora sicuro che Pechino voglia fornire l’aiuto economico auspicato da Mosca, inimicandosi l’Europa. Anche se non è giunto alle conclusioni auspicate, l’incontro di Roma tra USA e Cina ha almeno permesso di comprendere che Pechino non sembra avere intenzione di assumere una posizione che gli possa precludere i mercati occidentali. Secondo Eurostat 2020, infatti, il mercato russo vale il 25% del mercato europeo (interscambio commerciale di 145 mld USD contro 580 mld USD). Quanto potrà valere dopo l’eventuale default? Ben poco. Senza contare gli stretti rapporti economici (in questo caso diversi dai rapporti geopolitici) che legano Washington e Pechino (interscambio del valore di 655 mld USD), con l’uno che ha anche interesse a mantenere dall’altro la fornitura di molti suoi prodotti. Un aiuto sostanzioso alla Russia rischierebbe di rovinare definitivamente tali rapporti.

Fratture nel cerchio magico?

Una Russia, quindi, che di fronte a un successo militare abbastanza relativo (e a un costo enorme in termini di immagine internazionale e di perdite umane) rischia il default economico e la sudditanza geopolitica.

Sembra che questo scenario stia incominciando a essere compreso anche in Russia. Non mi riferisco alle manifestazioni di coraggioso dissenso come quello ultimamente visto durante una trasmissione della principale emittente televisiva. Coraggioso ma dagli effetti abbastanza limitati. Mi riferisco alle nervose manifestazioni evidenziate sia da Putin che da alcuni personaggi del suo entourage, gli unici che possono veramente cambiare la partita che si sta drammaticamente giocando in Ucraina. Sono manifestazioni che fanno pensare che si stia muovendo qualcosa sia all’interno del Cremlino che negli ambienti che contano.

A partire dal direttore dei servizi e della sicurezza, lo stesso che è stato platealmente umiliato da Putin durante una famosa riunione di vertice perché sosteneva l’opportunità di mostrare una posizione più dialogante. Oggi sembra che stia spingendo per concludere i combattimenti, portando a casa i risultati ottenuti ed evitando di complicare ulteriormente la situazione economica e internazionale della Russia. Il direttore è di provata fedeltà putiniana e, proprio per questo, il suo parere dovrebbe (avrebbe dovuto, ndd) avere un certo peso.

Tra le posizioni più concilianti va poi aggiunto l’ex-ministro degli Esteri (1998-2004) russo Ivanov, che ha ultimamente firmato un appello con il quale auspica un ritorno alla diplomazia e al dialogo affinché le dispute vengano dibattute sul tavolo negoziale e non combattute sul campo. Ancorché non abbia un incarico di particolare rilievo, è illuminante il fatto che si sia esposto in maniera netta e in un momento come questo. Potrebbe essere un segno che, da politico navigato, ha “fiutato” il vento del cambiamento?

Posizioni più da colomba che da falco che sembrano coerenti con quanto dimostrato durante la fase pre-crisi da un altro diplomatico di lungo corso come il ministro degli Esteri Lavrov, che aveva dato l’impressione di privilegiare la dialettica. Tuttavia, vista la propensione di Putin a eliminare (letteralmente) il dissenso, Lavrov ha poi scelto di “farsi come canna al vento” e di assumere comportamenti più coriacei, non si sa quanto dettati da convinzione e quanto da necessità.

Sempre dalla diplomazia viene un altro segnale che non va sottovalutato. Il 16 marzo, durante la messa officiata dal Papa contro tutte le guerre, secondo quanto riportato dal TG1 l’ambasciatore russo in Italia era seduto accanto all’ambasciatore ucraino.

A queste autorevoli posizioni si contrappone l’attuale ministro della Difesa, che pare abbia chiesto a Putin di inasprire le operazioni (da cui la richiesta di sostegno anche militare a Pechino) per giungere a un esito che possa far dimenticare le numerose e sproporzionate perdite umane e, magari, permettergli di mantenere la poltrona. Egli ha appoggiato Putin nel voler mostrare i muscoli e far vedere che Mosca aveva le capacità per confrontarsi con la NATO, ma l’unico effetto ottenuto è stato quello di evidenziare al mondo le (troppe) debolezze dell’apparato militare russo: logistica gravemente lacunosa (eclatante la mancanza di carburante per i carri e di cibo per la fanteria), mancanza di coordinamento tra reparti (dove alcuni non sapevano neanche quali/dove erano gli obiettivi), scarsa preparazione della fanteria impiegata (a parte i settori d’élite), aeronautica inconcludente (che nonostante la superiorità di mezzi non è riuscita a ottenere il completo controllo dei cieli).

Alcuni osservatori obbiettano che questo potrebbe essere causato dalla prudenza dei pianificatori, che non desiderano molte vittime civili. Ma ciò ha comunque causato molte vittime tra gli abitanti e ha prodotto perdite rilevanti da parte russa, non solo di materiale ma anche di personale. Non solo novellini dell’uso delle armi, ma tra i caduti e i prigionieri sembra siano compresi anche molti reparti di elevato valore aggiunto come paracadutisti e forze speciali. Esperti combattenti che non possono essere efficacemente sostituiti con un addestramento di poche settimane. E questo solamente tenendo conto dei principali aspetti tecnico-militari.

Sotto il profilo politico i risultati sono, se possibile, ancora peggiori, dato che la guerra all’Ucraina ha rivitalizzato una NATO in crisi, ricompattando gli alleati e riavvicinando anche il rissoso alleato turco, e ha ridato luce alla sbiadita figura di Biden, che ha riguadagnato consenso interno. In Europa, seppur vittima collaterale delle proprie sanzioni, la guerra ha permesso di rompere le (ideologiche) resistenze pluriennali e di far scattare un impegno ad aumentare le risorse per gli armamenti almeno al 2% del PIL (la Germania anche oltre).

In pratica un Re Mida al contrario che, senza un deciso cambiamento della situazione sul terreno, potrebbe vedere compromessa la sua posizione e diventare il capro espiatorio di una guerra i cui costi saranno comunque eccessivi rispetto agli obiettivi raggiunti, e rischiando di dover volontariamente rassegnare le dimissioni e trascorrere una solitaria vecchiaia in una dacia sperduta nella steppa.

Putin in un cul de sac

Che le difficoltà comincino a produrre effetti nelle dinamiche interne è anche dimostrato dallo stesso Putin, che ha fatto arrestare due alti dirigenti del servizio informazioni e sicurezza, accusati di non aver adeguatamente “oliato” elementi politici chiave della struttura politica ucraina affinché appoggiassero l’invasione (e di aver intascato i soldi messi a disposizione per corromperli). L’arresto ha fatto ovviamente infuriare buona parte dell’apparato di sicurezza. Un evento che lascia spazio per le speculazioni sul fatto che Putin possa non avere più la forza di un tempo e che la sua sopravvivenza politica potrebbe essere ormai legata a un filo. Quando si è veramente forti, infatti, non c’è bisogno di far pubblicizzare l’arresto di alti ufficiali degli apparati di sicurezza. Li si sostituisce in silenzio e si passa oltre. Evidentemente Putin ha sentito il bisogno di inviare un messaggio urbi et orbi che il capo è lui. Ma questo, in tempo di guerra, è un segno di debolezza, non di forza.

Oggi si trova in un cul de sac dal quale non sembra riuscire a trovare una onorevole via d’uscita. Egli non vuole diventare il valletto di Xi Jinping ma è giunto a un punto tale che non può cedere, se non avendo qualcosa da mostrare come trofeo. Ma l’entità di quella che può essere “venduta” come vittoria può essere ridimensionata con il passare del tempo e l’aumentare del prezzo da pagare per conseguirla. E l’attuale prezzo appare già (troppo) alto.

L’arresto dei due dirigenti del “quinto servizio” dell’FSB potrebbe, quindi, essere un inizio di resa dei conti e/o un tentativo di preparare la narrazione con la quale, nel caso, proporsi all’opinione pubblica interna come una vittima di personaggi o apparati incompetenti. Se questo è lo scenario, potrebbero in futuro esserci altre “sostituzioni”.

Come uscirne?

In tutto questo non può essere sottovalutata la possibilità di destituzione del presidente Putin e di tutta la leadership che ha voluto la guerra in Ucraina, attraverso un’azione di forza condotta dai dissenzienti. Uno scenario che, dopo gli inevitabili contraccolpi iniziali, potrebbe portare all’immediata cessazione delle ostilità, anche se da ambo le parti i morti sul campo potrebbero rappresentare un pesante fardello e un ragguardevole ostacolo a una rapida definizione di eventuali successivi accordi di pace.

Non solo, un cambio al vertice della Russia, anche se dovrebbe essere oggetto di attenta valutazione internazionale, potrebbe in parte attenuare il risentimento verso Mosca, permettendo di salvare parte della propria immagine e consentendo di non entrare in un’orbita di sudditanza geopolitica cinese, allontanando scenari ancora più cupi.

Qualora un tale scenario dovesse realizzarsi, inoltre, si aprirebbe anche la possibilità (certamente irta di difficoltà) di riportare la Russia verso l’Occidente, sottraendola all’abbraccio cinese, coinvolgendo Mosca (nonostante le sue deplorevoli azioni) in una specie di “piano Marshall” per la ricostruzione di un’Ucraina non schierata ma con assicurazioni certe di indipendenza e sicurezza. Una possibilità che, con le dovute limitazioni, potrebbe essere valutata anche con un Putin al potere, ancorché fortemente ridimensionato.

Al momento, tuttavia, sembra che Putin abbia deciso di inasprire i combattimenti, attuando bombardamenti navali contro Mariupol e facendo confluire rinforzi provenienti dall’Ossezia, dall’Armenia e da altri distretti distanti dal Mar Nero, in supporto a un’offensiva il cui esito non appare scontato, mentre le sue risorse vanno esaurendosi e il default economico va avvicinandosi (per il pagamento delle cedole sui bond la Russia ha ottenuto un mese di “grazia”, pena il totale isolamento economico e finanziario).

La speranza è che da parte di tutti gli attori il buon senso prevalga prima dell’irreparabile e che il pallino torni presto in mano alla diplomazia. Ogni ipotesi sul futuro del conflitto al momento può essere catalogata solo come speculazione.

Foto: Cremlino