La guerra russo-ucraina - e la lunga lista di potenziali conflitti globali che potrebbero esplodere come a Taiwan, nel Mar Cinese Meridionale, nelle Isole Curili, nella Corea del Nord e in Iran - rappresenta un brusco risveglio d'allarme strategico per i paesi di tutto il mondo, suggerendo che l'ordine internazionale dopo questa guerra (e le potenziali altre) non sarà più come prima. Ma questo è parimenti valido anche per i conflitti già esistenti, come quelli tra Armenia e Azerbaigian, India e Pakistan, Palestina, Kurdistan (turco, siriano, iracheno e iraniano), Sahel, Somalia, Mozambico, ecc. ecc.
Un nuovo ordine multipolare di natura e contorni differenti a quelli precedentemente esistiti ha cominciato ad apparire all'orizzonte, spingendo i paesi a rivalutare i propri conti economici e le alleanze politiche.
In effetti, molte nazioni stanno ridefinendo i propri interessi geopolitici per adattarsi ed essere autosufficienti e stabili in mezzo a complesse crisi globali senza chiari obiettivi (e senza chiare conseguenze), identificabili o controllabili.
Questo è particolarmente vero per la cosiddetta comunità arabo-islamica e lo ancora di più per la subregione del Golfo Arabo-Persico. Tra questi stati, particolarmente, per quelli aderenti al bizzarro (nel senso che è poco chiaro come è realmente governato viste le profondissime divisioni nascoste dietro fastose riunioni e lunghissimi comunicati finali, del GCC (Gulf Cooperation Council), tali rivalutazioni sembrano essere sempre più articolate considerando gli attuali sviluppi geopolitici.
L'alleanza con gli Stati Uniti continuerà a coincidere con gli interessi presenti e, soprattutto, futuri degli Stati del Golfo?
Queste nazioni come stanno tentando di diversificare le loro alleanze con potenze emergenti come Cina, Russia (e altre) nei settori della sicurezza, finanza e dell'energia?
Tra questi due corni ne esiste un terzo, assai delicato, cioè la costruzione di un equilibrio tra gli interessi statunitensi da un lato e quelli cinesi e russi dall'altro (senza contare il peso di stati come Iran e Turchia)?
Identificare un percorso da seguire è della massima importanza, per l’Occidente e l’Europa, in considerazione della importante capacità energetica (gli stati del Golfo producono il 40 percento dell'energia totale mondiale) e in sua conseguenza, enormi disponibilità finanziarie.
Prima di esaminare le opzioni e scelte possibili per questi stati, tuttavia, ci sono diversi punti chiave che devono essere evidenziati come fattori nelle valutazioni degli Stati del Golfo sui loro interessi e alleanze. In primo luogo, gli Stati del Golfo sembrano non ignorare i segnali provenienti da un'importante alleanza strategica formata dal complesso delle architetture internazionali alternative al sistema di architetture di sicurezza politica ed economica euroatlantica (EU, NATO, G7 ecc.) rappresentata da una realtà solida come la SCO (Shangai Cooperation Organization che comprende Russia, Cina, Iran, India, Pakistan, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Uzbekistan e altri diversi paesi sia come osservatori sia come partners, tra cui l’Arabia Saudita), una assai robusta la BRI (Belt and Road Initiative) e una in divenire, il BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica e diversi altri interessati ad aderirvi).
Allo stesso modo, gli Stati del Golfo sono consapevoli dell'importanza del ruolo della Russia e della Cina nel controllare le intemperanze iraniane, soprattutto se Teheran, nonostante alcuni recenti dichiarazioni di buona volontà (probabilmente dettate dalle necessità di attenuare il suo isolamento accresciutosi per la brutale repressione dei movimenti di protesta civile), dovesse replicare lo schema della Nord Corea nell’ambito nucleare. Inoltre gli stati del GCC nonostante le evidenti necessità non sono in grado di sviluppare una politica comune per le sopracitate divisioni e rivalità interstatali e divergenti necessità. Ma quello che più conta, è che il legame della subregione con gli Stati Uniti, iniziato con l’incontro tra il presidente F. D. Roosevelt e il re saudita Ibn Saud a bordo dell’incrociatore USS Quincy nel Canale di Suez nel febbraio 1945, se storicamente oscillante a seconda delle amministrazioni di Washington, negli ultimi anni è diventato più instabile per la polarizzazione ideologica della dirigenza statunitense (senza contare le maniere insultanti di Trump verso i suoi interlocutori locali).
Infine le ripercussioni della guerra ucraina rimangono ancora poco chiare e imprevedibili in termini di sicurezza ed economia, soprattutto per quanto riguarda i prezzi globali dell'energia, ma hanno mostrato alle dirigenze del mondo che, in confronto alla Cina, la Russia appare sempre più come il junior partner di Pechino. Di conseguenza, gli Stati del Golfo, pur con in mano la carta del ricatto energetico verso l’Occidente, sono comprensibilmente riluttanti a rinunciare a grandi clienti petroliferi come la Cina, soprattutto nella prospettiva che tutti i loro clienti (Pechino inclusa) si stanno indirizzando a una minore dipendenza degli idrocarburi e che i loro guadagni infiniti, si dovranno ridurre.
Date le attuali condizioni internazionali, la leadership del GCC ha di fronte un certo numero di opzioni per definire un nuovo approccio strategico nei prossimi anni. La diversificazione dei partenariati internazionali sembra una scelta obbligata dato il contesto attuale. Tuttavia, diversificazione è una questione importante visti i legami che legano il GCC con gli USA e i suoi alleati, che per inciso hanno importanti assetti militari schierati nell’area.
La forbice è se elevare la cooperazione strategica con Pechino e Mosca e farsi carico di una dura ostilità da parte dell’Occidente oppure mantenerle, seppure a un livello più ridotto che permetta di fare buoni affari, cosa che appare l’unica ragion d’essere per molti paesi occidentali, e mantenere un elevato contesto di contatti economici, politici e militari con l’Occidente. Questa opzione potrebbe consentire di bilanciare gli interessi geopolitici tra l’Occidente da un lato e Cina e Russia dall'altro (ma fino a un certo punto, nel caso del confronto tra Washington/Bruxelles, Pechino/Mosca si estremizzi).
Se adotteranno la seconda opzione, gli Stati del Golfo potrebbero diventare un canale di comunicazione, comprensione ed equilibrio tra gli interessi statunitensi, cinesi e russi su varie questioni globali, in particolare l'energia e il commercio.
In particolare, gli UAE potrebbero svolgere un importante in questa opzione basandosi sul ruolo internazionale vitale che già svolgono (è proprio di marzo che unità delle forze terrestri UAE si esercitano con reparti dell’U.S. Army negli Stati Uniti) e anche per marcare la differenza con l’ingombrante partner che è l’Arabia Saudita, anche Qatar e Oman potrebbero anche gestire questioni complesse tra Stati Uniti, Cina e Russia, data la loro lunga esperienza in negoziazioni complesse. Ad esempio, il Qatar ha mediato con successo un accordo tra i talebani e gli USA nel 2020 (il problema è stata la fragilità del governo afghano collassato davanti ai talebani, grazie alla corruzione delle forze regolari afghane) e l’Oman ha mediato con successo diversi accordi tra Iran e Stati Uniti, incluso l'accordo nucleare del 2015.
Una linea rossa
Una linea rossa sarebbe la stipula di accordi militari con Pechino e/o Mosca. Questa ipotesi, sinora lontana, potrebbe essere in prospettiva, dopo il recente accordo per la normalizzazione delle relazioni tra Teheran e Riyadh, patrocinato dalla Cina ed è utile ricordare che sin dal 1988 l’Arabia Saudita ha acquisito missili cinesi Dong Feng 3 (gittata 3.000 chilometri), ma erano altri tempi e la vendita non costituì un problema, visto che tale tipologia di sistemi non era prodotto dalle industrie occidentali e quei missili erano percepiti come una deterrenza contro l’Iran.
Inoltre la cooperazione tra gli stati del GCC, la Russia e la Cina non dovrebbe danneggiare gli interessi degli Stati Uniti o quelli degli alleati (UE/NATO) specialmente negli ambiti energetici (e seppur non detto chiaramente, anche quelli di Tel Aviv).
Il GCC dovrebbe, se fosse in condizione di farlo, garantire a Washington e Bruxelles che la cooperazione con la Russia, o anche con la Cina, non porti alla crescita della loro influenza sulla regione del Golfo Persico, innescando potenzialmente una risposta ostile da parte di USA; NATO e UE, come l’ulteriore accelerazione delle politiche energetiche indipendenti dagli idrocarburi, con nefaste conseguenze per gli stati del GCC (e di fatto ad esso, seppur attraverso l’OPEC e l’OAPEC, come l’Irak).
L’accordo di normalizzazione delle relazioni tra Arabia Saudita e Iran, mediato e patrocinato da Pechino sembra essere il primo segnale di questo nuovo approccio (ma anche no); in ogni caso visto che coinvolge la nazione leader del GCC (sebbene contestato) e ha una vasta influenza e ascendenza sulle altre nazioni araboislamiche (con alcune notabili eccezioni).
In ogni caso riferendosi a quanto suaccennato, nonostante un clima non particolarmente positivo tra Riyadh e Washington, con un tempismo degno di miglior causa, l’inenarrabile principe ereditario saudita MBS (Mohammed Bin Salman) ha fatto rendere nota la finalizzazione di un massiccio contratto per l’acquisto di 121 aerei di linea Boeing per la neocostituita Riyadh Air e la Saudia appena dopo la notifica internazionale dell’accordo patrocinato da Pechino. Il contratto è stato commentato da un caloroso comunicato del Dipartimento di Stato che sottolineava la solidità delle relazioni bilaterali (excusatio non petita…). I negoziati per questo contratto hanno richiesto tempo per essere finalizzato, anche per ragioni tecniche, ma sarebbero iniziati tempo fa, probabilmente coincidendo con i primi approcci diplomatici di Pechino e, altrettanto palesemente rappresenta una assicurazione che l’Arabia Saudita vuole dare a Washington e una bella iniezione di denaro per l’industria aeronautica statunitense, asse simbolico e strategico degli USA.
Vaste conseguenze?
Gli ultimi sviluppi, come la promessa di ristabilire le relazioni diplomatiche e normalizzare le relazioni tra Riyadh e Teheran, promosse dalla Cina, ha una serie, potenzialmente, molto ampia di conseguenze, sia regionali che nel near (e non) abroad. A un primo sguardo, l’intesa irano-saudita-cinese potrebbe essere visto come un altro affronto di MBS agli USA. Se lo è, è sicuramente un aspetto parziale delle complesse relazioni bilaterali che legano i due paesi.
I timori di un rapido allontanamento di Riyadh da Washington sono mitigati dalla continua dipendenza dell'Arabia Saudita dalla capacità militare statunitense, per non parlare del flusso di pezzi di ricambio per l’arsenale saudita. Tuttavia resta intatta l’irritazione degli USA verso l’Arabia Saudita nel tema dei diritti umani e civili e per il barbaro omicidio del giornalista del Washington Post Jamal Khashoggi nel 2018.
La Casa Bianca, nel frattempo, ha minimizzato le differenze con l’Arabia Saudita, affermando che Riyadh era in stretto contatto con Washington per le conversazioni con Pechino e Teheran, dato che gli Stati Uniti e l'Iran non hanno contatti diplomatici diretti.
La vera ragione dell’accordo di Riyadh con l’Iran sembra essere dettato dalla necessità, sempre più impellente, di uscire dal pantano della guerra nello Yemen, iniziata nel marzo 2015, con spese enormi, risultati scarsi e un danno di immagine importante per le sofferenze delle popolazioni civili, senza contare l’umiliazione militare di forze armate teoricamente potentissime, quelle saudite, di fatto bloccate dalle milizie degli simil-sciiti yemeniti Houti, che sono arrivati a colpire in profondità l’Arabia Saudita e gli EAU, con missili forniti da Teheran.
Inoltre, per i suaccennati problemi in merito ai diritti umani in Arabia Saudita, Biden, con il sostegno del Congresso, ha posto fine all'assistenza americana per le operazioni offensive saudite nello Yemen.
Anche in questo entra la sempre più feroce disputa politica ideologica interna negli USA, dove i repubblicani criticano Biden per aver spinto Riyadh più vicino a Pechino, affermando che i democratici si sono alienati un partner chiave del Golfo, hanno perso un'altra battaglia nella competizione globale contro la Cina mettendo a repentaglio le opportunità di stabilire legami tra Arabia Saudita e Israele e la possibilità di ricostituire (su basi e aderenti differenti, ovviamente) le antiche alleanze e intese promosse da Washington negli anni ’50 nel Medio Oriente (Patto di Baghdad, CENTO, METO).
L'Arabia Saudita ha tuttavia affermato che l'apertura di legami con Israele è subordinata al progresso verso uno stato palestinese. Questa condizione costituisce un grave problema per Netanyahu, che con la mano dura verso i palestinesi si è messo in un angolo in questa prospettiva, visto che l’adesione dell’Arabia Saudita alla coalizione antiraniana, è vista da Israele come una necessità strategica, sbloccherebbe l’allargamento di questa intesa quasi tutti gli stati della regione, con la ovvia esclusione di Siria, Algeria, forse Iraq e Libano (in questi due per le massicce popolazioni di rito sciita), ma i funzionari sauditi hanno chiesto garanzie per un costante flusso di armamenti e porre questo ambito al di fuori delle divergenze politiche, un impegno per la difesa del regno e aiuto alla costruzione di un programma nucleare civile.
I paesi della regione, e l'Arabia Saudita in testa, continuano a preferire partners negoziali repubblicani a Washington, sia per ragioni ideologiche (entrambi reazionari/conservatori) che per prossimità economica, vista la prossimità dell’industria petrolifera statunitense con il partito Repubblicano e a riprova di questo, basterebbe osservare che i sauditi, prima delle elezioni di medio termine del 2022, hanno tagliato la produzione di petrolio nonostante l'opposizione degli USA, con l’obiettivo di farne salire il prezzo, danneggiare le possibilità elettorali dei Democratici e aiutare i Repubblicani.
Questa diffidenza dei democratici, è antica, originata dall’attenzione che essi danno a temi che i sauditi trovano insopportabili, come la tutela dei diritti umani, ma il punto di svolta è del 2015, quando il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha dato il via libera a un accordo nucleare con l'Iran senza consultare i sauditi. Ha poi insinuato che l'Arabia Saudita è un "free rider" e ha sostenuto che la situazione nel Golfo Persico "ci impone di dire ai nostri amici e agli iraniani che devono trovare un modo efficace per condividere il vicinato".
Secondo molti osservatori l'accordo irano-saudita-cinese sarebbe un "affronto tattico" dell'Arabia Saudita nei confronti dell'amministrazione Biden, ma le perturbazioni delle relazioni a livello politico non si ripercuotono quasi mai sul livello militare-militare e le possibilità di ulteriori scivolamenti dei paesi della regione verso l’acquisto di armi cinesi è bassa (e quella russa è bassissima, viste gli scarsi risultati forniti dalla guerra in Ucraina) e più in generale, è forte l’insoddisfazione verso beni e servizi forniti da imprese e cinesi, mentre gli Stati Uniti ed Europa mantengono un indiscusso vantaggio con la qualità del materiale, i servizi post vendita, addestramento, formazione e supporto.
Una visione differente
È da vedere se l'Arabia Saudita e l'Iran manterranno gli impegni presi nella loro dichiarazione trilaterale firmata con la Cina, come la riapertura delle loro ambasciate e lo scambio di ambasciatori entro due mesi. L'Arabia Saudita e l'Iran hanno anche concordato di attuare un accordo di cooperazione in materia di sicurezza vecchio di decenni, stabilito per la prima volta nel 1998 e ampliato nel 2001, e di cooperare in materia di economia, commercio, investimenti, tecnologia, scienza, cultura, sport e gioventù (accordo rimasto lettera morta).
Un nuovo ripristino delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e Iran, mediato dalla Cina, è appena sufficiente per superare le ostilità di lunga data di questi due paesi. Lungi dal rappresentare un riallineamento regionale, in definitiva è più probabile che appaia come un ulteriore segno che Pechino sta cercando di farsi strada nella diplomazia internazionale e che nella sua prospettiva i risultati, se ci saranno, si potranno vedere nel medio termine.
L'Arabia Saudita e l'Iran sono acerrimi avversari con una storia secolare di inimicizia e sfiducia. Su quella base è estremamente improbabile che diventino improvvisamente vicini amichevoli. Ma non è chiaro in che termini e per quanto tempo MBS potrà valorare questa risultato. Il nuovo accordo non è come quello di Camp David (che ha effettivamente posto fine alla guerra tra Egitto e Israele); né è paragonabile nemmeno ai velleitari accordi di Abramo (che stabilirono relazioni tra Israele e paesi arabi che non avevano mai aderito a una guerra contro di esso e che ora Israele spera di estendere ad altri partecipanti in funzione anti-iraniana).
Piuttosto, l'accordo promette poco più di una ripresa dei normali rapporti diplomatici; senza passi più concreti verso la riconciliazione, sostenuti da garanzie e supervisione esterne, l'accordo mediato dalla Cina potrebbe semplicemente rappresentare un interregno di calma prima di una prossima fase di tensioni bilaterali, possibile, in quanto le ragioni di fondo per risolvere e/o rimouvere i mutui sospetti, sfiducia e timori non sono state affrontate, a quanto si sa.
I due stati hanno una storia relazionale controversa. L'Iran ha interrotto i legami con Riyadh nel 1944 dopo che i sauditi hanno giustiziato un pellegrino iraniano che aveva accidentalmente profanato una roccia nel santuario della Mecca. Si sono riconciliati nel 1966. Ma poi, nel 1988, i sauditi hanno tagliato i rapporti dopo che le manifestazioni politiche iraniane durante il pellegrinaggio alla Mecca l'anno prima avevano provocato almeno 402 morti. Le relazioni sono state poi riprese nel 1991, prima di essere nuovamente sospese nel 2016, quando l'Arabia Saudita ha decapitato un religioso sciita, portando i manifestanti a prendere d'assalto la sua ambasciata a Teheran.
La maggior parte di queste oscillazioni sono state guidate da dinamiche regionali e globali. Nel 1966 la retorica laica e panaraba del presidente egiziano Gamal Abdel Nasser spinse i sauditi ad avvicinarsi al dittatore illuminato, lo Sha Reza Pahlavi (allora il protetto di Washington). Nel 1968, l’uscita della Gran Bretagna dal Golfo, a seguito della decisione di sospendere ogni presenza militare a Est di Suez, spariglia le carte. Il ricatto energetico dell’OPEC a tutto il mondo a seguito della guerra dello Yom Kippur inizia a dare risorse finanziare infinite a quella regione, accendendo ulteriormente le rivalità preesistenti. Nel 1991 entrambi i paesi temevano l’Irak di Saddam Hussein. Oggi non esiste una minaccia comune verso entrambi i paesi.
L'accordo è più simile a un cessate il fuoco temporaneo, uno dei tanti promossi da leader regionali e che sono tutti finiti penosamente, come l’accordo promosso tra Libano e OLP nel 1969 da Nasser, concedendo ai palestinesi un'area fissa di operazioni contro Israele. Ma sei anni dopo, i palestinesi erano in guerra con le fazioni cristiane del Libano, accendendo la guerra civile tra fazioni politico-religiose locali e dando il via a ripetute e micidiali azioni israeliane; o come nel febbraio 1994, il re Hussein di Giordania ha mediato un accordo tra i leader yemeniti in lotta; ma nel maggio di quell'anno una fazione si era separata, provocando una nuova guerra civile.
In qualità di aspirante attore egemone e regionale, la Cina spera che il suo nuovo peso diplomatico rafforzi la sua potenza e presenza militare nella regione (e subregione). Ma nel Golfo Persico vi è una importante presenza militare americano. La 5th Fleet dell’U.S. Navy ha sede a Bahrain, il CENTCOM (comando centrale interforze statunitense che ha giurisdizione e opera in una area che va dall’Egitto all’Afghanistan) ha il suo comando operativo avanzato in Qatar e la stessa Arabia Saudita ospita quasi 3.000 militari USA (e un numero enorme, ma non noto, di ‘contractors’).
Dopo queste note che possono apparire tranquillizzanti nei riguardi dell’aggancio, forse obbligato dell’Arabia Saudita (e questi parametri sono trasferibili anche agli altri staterelli del GCC), al sistema politico-economico e militare dell’Occidente, è utile ricordare che Riyadh, che sembra alla ricerca di un suo spazio, ha recentemente rifiutato recisamente di partecipare alla ricapitalizzazione del crollante Credit Suisse. La cifra, importante, ma non insormontabile per le finanze saudite, dovrebbe far riflettere su quanto si possa realmente contare su un partner che cerca di tacitare dubbi e timori monetizzandoli (cioè firmando grandi contratti di ogni tipo).
Ovviamente ogni stato ha le sue priorità e necessità ma a volte tali mosse lasciano allo scoperto stati clienti, che avevano uniformato le loro politiche su quelle saudite, come il Marocco. Rabat per solidarietà nei confronti di uno dei suoi maggiori finanziatori, aveva una linea durissima con l’Iran, negli ultimi tempi accusato di fornire assistenza militare al POLISARIO attraverso istruttori degli Hezbollah iraniani e più recentemente, di cedere al movimento che lotta per l’indipendenza dell’ex Sahara spagnolo, droni per attaccare le sue truppe schierate sul muro di sabbia che divide l’ex colonia di Madrid.
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