Iran, prigionieri di una rivoluzione

(di Gino Lanzara)
07/11/23

Jimmy Carter, 1978, “Grazie alla grandezza dello Scià, l'Iran è un'isola di stabilità nel Medio Oriente.”

Ali Ansari, “La tolleranza iraniana è leggendaria, ma quando si rompe, si rompe alla grande. L'élite politica è consapevole di questa realtà, e questo spiega la loro paranoia.”

Durante le ultime settimane il confronto Israele – Hamas ha tenuto inevitabilmente banco, un conflitto che impegnerà a lungo analisi geopolitiche destinate a sopravvivere agli aspetti più immediatamente mediatici; quel che solo parzialmente ha saturato le pagine dei giornali è stato il fattore iraniano, eccezion fatta per gli aspetti di più diretto coinvolgimento libano- palestinese.

L’Iran è un Paese che vanta storia e civiltà millenarie, non può essere limitato ad aspetti contingenti; quanto meno andrebbe tratteggiato un quadro complessivo in grado di evidenziare i perché degli avvenimenti. Andando indietro nel tempo una possibile e nostalgica colonna sonora segue le note di Barbra Streisand con il suo The Way We Were, un come eravamo universale che tocca chiunque e che illumina qualsiasi momento, i pochi pregi ed i moltissimi ed inevitabili difetti.

Politicamente l’identità iraniana moderna si è configurata nel XVI secolo, quando l’Islam sciita è divenuto religione ufficiale persiana, contraltare al sunnismo ottomano; è dunque solo ed unicamente lo Sciismo a forgiare l’unità statuale iraniana, assegnando alla rivoluzione del 1979 una posizione politico-religiosa esclusiva. Se l’Occidente ha percepito l’Islam politico come un fatto nuovo ed inquietante, i paesi musulmani hanno guardato subito non alla tradizione sciita, quanto alla sua inedita dinamica repubblicana, volta a fondere ambizioni politico religiose.

La politica estera iraniana si estende su tre livelli, nazionale, islamico e internazionale, tra loro sovrapponibili e paradossalmente talvolta contraddittori; valutare solo l’aspetto islamico trascurerebbe il nazionalismo e le istanze della borghesia alle prese con una difficile globalizzazione; l’Iran intende conquistare un ruolo di primo piano nella umma dei Credenti, un intento cui si è opposta sia la resistenza sunnita sia quella degli sciiti arabi, refrattari alle dominazioni persiane ed all’adozione della velayat-e faqih1 per cui il potere, spettante alla Guida suprema2 iraniana, non è demandabile ai singoli ayatollah in contesti dove c’è stata anche l’ascesa di borghesie e giovani generazioni acculturate e globalizzate.

Sono stati gli inconsapevoli USA ad aver donato all’Iran lo scettro del potere iraqeno dal 2003, tanto da indurre il re di Giordania a parlare di una mezzaluna sciita estesa da Teheran al Libano passando da Iraq e Siria, pur a fronte di un indebolimento dottrinario, dazio inevitabile da pagare sull’altare del potere secolare che disconosce la supremazia iraniana, riuscita però a rendere pericoloso Hezbollah, partito politico fondato su una milizia.

Che la politica iraniana, malgrado le autocrazie succedutesi, sia sempre stata molto sensibile, è testimoniato già in tempi relativamente recenti dal colpo di stato del 1953, istigato da USA, GB e guidato da Artesh, che condusse al rovesciamento del Primo Ministro Mohammad Mossadeq a favore del rafforzamento monarchico dello scià Reza Pahlavi, peraltro minacciato di deposizione da parte della CIA, e dove anche il clero sciita, con il presidente del Parlamento, l’ayatollah Kashani, svolse un ruolo notevole mentre si rendeva percepibile l’influenza dei comunisti del Tudeh. Imprigionato e poi morto agli arresti domiciliari Mossadeq, il martire della nazionalizzazione petrolifera, la storia preparò 26 anni dopo un contrappasso feroce nei confronti dello scià, che Mossadeq tollerava solo come simbolo utile al taglio dei nastri e non come governante. Già dal ’53 si nota una caratteristica politica reiterata nel tempo, ovvero un’opposizione poco coesa e priva di guide catalizzanti.

La politica monarchica non solo è filo occidentale, ma a partire dal 1962 promuove la cosiddetta Rivoluzione bianca3, una serie di riforme modernizzatrici ed indirizzate a rendere sempre più laiche le istituzioni. Le riforme tuttavia appaiono poco popolari al di fuori dei grandi centri urbani, anche perché la transizione economica tende a favorire i ceti più ricchi. Il problema per lo scià è duplice: le sue riforme non solo non sono gradite al clero, ma neanche ai nazionalisti che paventano un’eccessiva occidentalizzazione. Il programma prevede fine della feudalità e del latifondo4, redistribuzione delle terre confiscate al clero sciita, nazionalizzazione delle foreste, privatizzazione di alcune imprese governative, creazione di un sistema di istruzione gratuito e obbligatorio, istituzione di un sistema sanitario collettivo, il suffragio universale e l’eleggibilità parlamentare per le donne5; il dazio per le riforme fu pagato sia dalla nobiltà sia dal clero, avverso a riforme percepite come una minaccia esistenziale. Il nuovo diritto di famiglia, promulgato nel 1967 ed esteso nel 1975, limitò la poligamia e difese il divorzio vietando la possibilità, garantita dalla sharia, di ripudiare la moglie, mentre l’età minima per il matrimonio da 15 venne elevata a 18 anni nel 1975; Reza scià nel 1936 aveva già messo fuorilegge il velo e aperto le università alle donne.

D’altro lato non si può dimenticare la politica repressiva, la crisi economica ed un’occidentalizzazione entro un contesto comunque vincolato all’Islam, tutti elementi che aggregarono alla fine degli anni ’70 un movimento di protesta sorretto sia dalla sinistra sia dal fondamentalismo religioso. Va detto che la modernizzazione dello scià non contemplava forme di apertura democratiche: Reza Pahlavi intendeva continuare ad essere un sovrano assoluto in un Iran moderno, un ossimoro politico in un Paese in cui la Rivoluzione bianca era stata caldeggiata da Kennedy in chiave antimarxista. Scendono in piazza contro lo Scià i Fedayyin-e khalq, i volontari del popolo, formazioni marxiste formate da studenti universitari ed operai; vengono improvvidamente accolti tra loro gruppi di ispirazione islamista radicati nelle province e di fatto in antitesi ideologica con il Tudeh.

Il ritorno dell’esiliato Khomeini sbilancia l’alchimia politica privando di ogni possibile primazia il laicismo per consegnare la primazia stessa agli ayatollah. Stalin, da vecchio rivoluzionario probabilmente non avrebbe apprezzato molto la politica suicida del Tudeh6.

Il ritorno della sharia coincide peraltro con la degradazione dei diritti femminili in diversi ambiti, a cominciare dall’abolizione della legge per la protezione della famiglia del 1967, dall’età legale per il matrimonio portata a 9 anni, dal divieto per le donne sposate di seguire un’istruzione regolare, per finire con l’hijab imposto per legge e con la preclusione di poter aspirare alla carriera giudiziaria7. Con il rispristino della poligamia, l’adulterio diviene crimine punibile con la lapidazione, così come avere rapporti sessuali al di fuori del matrimonio.

Mediaticamente, grazie al suo carisma, Khomeini ruba la scena a chiunque, benché non sia il più dotto tra gli studiosi; audio/videocassette con i suoi discorsi preparano il campo alla convinzione che l’alternativa al regime sia a portata di mano. Se ne avvedono tutti, tranne il Tudeh, così ingenuo da pensare che l’Iran incarnasse un capitalismo maturo e che il clero avrebbe ceduto il passo.

Con la fine del sostegno degli USA, già da allora del tutto ignari delle conseguenze del risveglio islamico, la prima colonna occidentale in MO crolla mentre viene fondato il corpo armato delle Guardie Rivoluzionarie, i pasdaran che, grazie alla guerra con l’Iraq (1980-1988), assurgono a sempre maggior potere controllando vasti settori dell’economia. 

Oggi l’Iran è prigioniero del suo passato; è meno religioso di quanto si pensi, e meno ricco di quanto potrebbe essere. Il velayat-e faqih, imponendo una purificazione politica, ha messo a tacere i gruppi laici, ha portato ad un aumento costante delle pene capitali, alla sempre pronta giustificazione politico-religiosa per qualsiasi provvedimento ritenuto necessario8; la repressione dell’onda verde porta ancora alla memoria delle generazioni dei quarantenni iraniani le immagini dell’agonizzante Neda Agha-Soltan9, uccisa in strada da un cecchino. Non è un caso che, con lo scemare dell’ardore rivoluzionario, centinaia di migliaia di iraniani istruiti abbandonino annualmente il paese: difficile conciliare la visione di rigidi religiosi ultrasettantenni con quella di giovani acculturati che, oggi più che mai, sembrano rifarsi all’immagine ed ai pensieri di Oriana Fallaci che, già il 26 settembre del ’79, aveva ben compreso l’ideologia khomeinista e le sue possibili evoluzioni, un’anticipazione della rivolta accesa dall’omicidio di Jina Mahsa Amini, curda di Saqqez, percossa a morte dalla polizia morale10 il 16 settembre 2022 per non aver indossato correttamente l’hijab, seguito da quello che ha visto come vittima, poche settimane fa, per lo stesso motivo, Armita Gerawand di 16 anni.

Il movimento di protesta si è originato spontaneamente, dal basso, con caratteristiche senza precedenti, mentre le proteste popolari vengono definite come una cospirazione globale tramata dai nemici dell’Iran, USA e Israele. A fronte di almeno 800 manifestanti uccisi nell’arco di 12 mesi e di circa 22.000 arrestati, la repressione ha colpito Kurdistan e Sistan Belucistan. Le frange più libertarie temono che il significato più profondo della rivolta possa essere frainteso, posto che già nel 190511 e nel 1979 le istanze progressiste sono state tradite da una dirigenza divergente dagli ideali originari.

Nonostante tutto, il Nobel per la pace del 2023 è stato assegnato alle donne iraniane; il Comitato per il premio dell’Accademia di Svezia ha infatti nominato vincitrice Narges Mohammadi, attivista 51enne attualmente detenuta nel carcere di Evin; arrestata 13 volte, ha subito cinque condanne per un totale di 31 anni di carcere e 154 frustate. Nel XXI secolo.

Nonostante la detenzione quasi continuativa, dal 2011 Mohammadi ha continuato a denunciare gli abusi commessi ai danni dalle donne; parafrasando Balla coi lupi, si può dire che “qui c’è una donna che sa cos’è il coraggio”. La sottile linea rossa che unisce Mahsa Amini, Armita Geravand, Narges Mohammadi è quella di una resistenza civile che non si piega, che colpisce e fa cadere il turbante degli imam in strada, che si trasforma in continua frustrazione per un regime teocratico che, scosso da una demografia in calo, non riesce a rendere accetta la sharia ad un popolo che la stairway to heaven vuole trovarla da solo e non grazie a tramiti.

Il problema dunque risiede nella convinzione generalizzata che il buon governo non risieda in Iran, malgrado le rivolte del 2009, del 2017 e del 2019 non abbiano prodotto l’auspicato cambio di un regime che nell’hijab vede un limite invalicabile da difendere con una violenza analoga a quella usata dall’intelligence della Savak12 imperiale. Dalla Savak ai Pasdaran, da una guardia pretoriana all’altra il passo è stato breve, con la differenza che l'IRGC trascende le sue funzioni militari per comportarsi come attore politico centrale negli equilibri dello Stato dell’era Khamenei, che ha bisogno dei Pasdaran per garantire la propria sopravvivenza in cambio di un crescente potere economico13 grazie a Fondazioni14 e ad Istituti di Credito che hanno permesso, tra le altre cose, la costituzione di un welfare parallelo, congiunti ad una sempre più pervasiva ed efficace profondità strategica esterna.

In sintesi, i Pasdaran possono essere considerati come un deep state in possesso delle precondizioni ideologiche e materiali per l’acquisizione del potere con la tecnica di Malaparte15 e l’organizzazione di Luttwak16.

Mentre le forme di disobbedienza continuano a manifestarsi, ed il movimento Donna, Vita, Libertà, non prende posizione pro Hamas, Hezbollah e Jihad islamica, è presente il timore che la società ritenga responsabile l’esecutivo del malgoverno, cosa che crea la costante necessità di generare un falso nemico esterno al quale attribuire ogni responsabilità, a fronte dell’aspirazione diffusa ad una democrazia laica.

In questo momento, data la demografia, è la gioventù che agita il futuro iraniano; la lunghezza d’onda si sintonizza sul desiderio di migliori prospettive economiche, di maggiori libertà politiche e civili, di un esecutivo responsabile. Si tratta di una popolazione giovane, disincantata dall'ordine costituito, che dovrà tuttavia fare i conti con una fortissima resistenza volta a reprimere il dissenso per mantenere il controllo.

La Rivoluzione del ‘79 e le Primavere arabe del 2010 di fatto sono state caratterizzate dalla debolezza politica di regimi autoritari. L’iniziale idealismo religioso ha ceduto il passo ad un pragmatismo e ad un nazionalismo necessari alla realpolitik; la dialettica politica iraniana ha evidenziato la competizione tra le varie élite per il perseguimento di propri interessi. Economicamente il controllo statale sulle attività produttive e finanziarie si è rivelato poco efficiente, cosa che ha condotto a politiche neoliberali che hanno aumentato la crescita acuendo le disuguaglianze. Malesseri sociali ed economici ed insofferenza all’autoritarismo, hanno creato il melting pot di un malcontento intergenerazionale.

In Iran la protesta non è dunque solo femminile contro l’hijab, ma un fenomeno che coinvolge tutto il paese. La maggioranza della popolazione iraniana ha meno di 30 anni e non avendo vissuto la rivoluzione non ne riconosce nemmeno i principi culturali; il problema è semmai quello di non essere riusciti ad esprimere una leadership unica e riconosciuta.

Se in Iran la rivoluzione è di fatto ormai finita, è però vero che la dirigenza politica è riuscita a conservarne l’involucro esterno, con la speranza di replicarsi magari già con la rielezione di Rahisi nel 2025, e mantenendo in vita un sistema politico finanziario che costituisce la vera spina dorsale di Stato reale e soprattutto Stato profondo.  

1 Governo del giureconsulto. Il sistema elaborato da Khomeini prevedeva l’instaurazione di un governo islamico basato sull’idea della città-stato del Profeta, con il potere nelle mani dei cultori dell’Islam e con a capo la Guida Suprema.

2 Attualmente l’ayatollah Khamenei, a capo di un sistema istituzionale che non è né una dittatura visto che prevede diversi centri di potere (taluni elettivi), e nemmeno una democrazia, perché i membri di diverse importanti istituzioni sono nominati e non eletti appartenendo quasi tutti allo schieramento più conservatore.

3 Reza scià, padre dell’ultimo scià di Persia, si ispirò a Mustafa Kemal Atatürk, e intraprese un’opera di modernizzazione. Venne dato impulso allo sviluppo industriale e delle infrastrutture, si realizzò la costruzione del sistema ferroviario; venne potenziato l'apparato burocratico e migliorato il sistema sanitario; venne promossa la parità sociale femminile. Nel contempo lo scià indebolì il potere del clero, privando i religiosi del monopolio dell'istruzione grazie alla scuola pubblica statale, e bandendoli dai tribunali con l’istituzione di sistema giudiziario laico. Nell'attuare la modernizzazione lo scià represse le opposizioni, soprattutto la religiosa, mediante detenzioni ed esili forzati.

4 La riforma agraria alimentò l’urbanizzazione a seguito della quale il ceto contadino si rivolse al clero come unica istituzione.

5 L’ayatollah Khomeini guidò le proteste contro il suffragio femminile e lo paragonò alla prostituzione.

6 I leader dei Fedayyin e dei Mujaheddin del Popolo ed i quadri del TUDEH, sopravvissuti alle epurazioni della Savak sono stati in larga parte poi giustiziati sotto il regime teocratico.

7 Pubblicare fotografie senza hijab è punito con il divieto di ingresso in banche, uffici e mezzi pubblici da sei mesi a un anno. Le donne non possono cantare, se non duettando con un uomo, non possono ballare e non possono assistere ad eventi sportivi negli stadi se giocano degli uomini. Le donne sono discriminate nelle eredità e non possono viaggiare all’estero da sole se sposate. L’aborto è proibito dalla legge. Un articolo pubblicato su Human Right Watch di Rothna Begum, riporta come nel 2019 le donne fossero il 18% della forza lavoro del Paese, percentuale scesa al 14% nel 2020.

8 Il grande ayatollah Shariatmadari, che nel ’63 aveva nominato Khomeini ayatollah per evitargli la pena di morte, fu messo agli arresti domiciliari per la sua contrarietà alla politica corrente. Nella scelta del suo successore Khomeini contravvenne alla norma che voleva la guida quale membro più erudito del clero. Quando il prescelto, l’ayatollah Montazeri, si appellò ad una maggiore democrazia, Khomeini scelse Ali Khamenei.

9 Neda Agha-Soltan 26 anni è stata uccisa da un cecchino delle forze di sicurezza mentre andava a una manifestazione che si stava tenendo nel giugno 2009 per protestare contro i presunti brogli elettorali che avevano permesso la vittoria alle elezioni presidenziali di Mahmud Ahmadinejad

10 Ha la facoltà di arrestare donne e ragazze che abbiano un abbigliamento reputato sconveniente.

11 Rivoluzione costituzionale dell'Iran, ebbe luogo tra il 1905 e il 1911 durante la dinastia Qajar. La rivoluzione ha portato all'istituzione di un parlamento in Persia.

12 Polizia segreta dello scià

13 Il Corpo gestisce circa 1/3 dell’economia iraniana. I pasdaran controllano la maggioranza dei settori economici, dall’energia alle infrastrutture, dal settore automobilistico a quello finanziario e bancario. L’ex presidente Rouhani ha più volte chiesto ai Pasdaran di non interferire nella vita politico-economica invitandoli a occuparsi esclusivamente dell’ambito militare, una richiesta rimasta inascoltata.

14 Il corpo esercita forti influenze sulle Bonyad, le organizzazioni e fondazioni non governative caritatevoli guidate dal clero sciita.

15 Tecnica di un colpo di stato

16 Strategia del colpo di stato

Foto: IRNA