Quale Pace in Medio Oriente, senza la fine degli "Stati procuratori"?

(di Germana Tappero Merlo)
22/11/23

Che si stia combattendo un conflitto asimmetrico fra Israele ed Hamas è evidente anche solo nei soggetti coinvolti: uno Stato di diritto, sovrano, contro un gruppo terroristico armato, sebbene dai numeri e dotazioni belliche importanti. Lo stesso vale per gli altri nemici che in questo momento stanno ponendo sotto attacco lo Stato ebraico, in varie forme e da altre zone: gli Hezbollah a nord, dal Libano, e gli Houthi da sud, dallo Yemen alle acque internazionali del Mar Rosso, entrambi filo-iraniani. Una guerra su più fronti per Israele, contro un tris di attori genericamente definiti non-statali ma di fatto con potenzialità belliche, addestramento, supporto, ma soprattutto determinazione e spinte ideologiche, propri di entità statali sovrane.

Sebbene la dottrina di difesa ebraica, fin dalle origini di Israele, si basi fortemente sulla superiorità tecnologica come mezzo per contrastare la sua inferiorità numerica, l’asimmetria e la deterrenza con i suoi attuali nemici non sono più fattori scontati a suo totale vantaggio, dato che costoro stanno perseguendo, e da tempo, una strategia progettata proprio per neutralizzare la superiorità tecnologica come fattore dissuasivo. E la scelta di Israele, negli ultimi anni, di favorire il mantenimento dello status quo esistente in materia di sicurezza, concentrandosi sulla difesa per non modificare sostanzialmente la situazione strategica, in concreto ha finito per avvantaggiare Hamas ed Hezbollah. Infatti, uno degli obiettivi finali dei sistemi di difesa tecnologici avanzati, come quello ebraico, è fornire un quadro operativo completo, h24, in tempo reale o in un dato momento, del campo di battaglia: ne è derivata la dotazione di sistemi di rilevamento avanzati in grado di garantire copertura continua, migliori tecniche di compressione e trasmissione dei dati, con anche l’impiego di intelligenza artificiale a supporto del processo decisionale.

Tuttavia, vi sono punti di debolezza: i sistemi di tracciamento possono essere contrastati con misure semplici, come droni e piccoli ordigni esplosivi, e i sensori, anche se avanzati, hanno una capacità limitata nei bunker e nei tunnel, oltre a quanto già evidenziato come “operatività a sorpresa” di Hamas il 7 ottobre scorso circa un attacco riuscito alle reti militari di informazione e comunicazione, di fatto accecate e messe a tacere. Inoltre, ed è noto, i conflitti asimmetrici sono caratterizzati da un crescente coinvolgimento delle popolazioni civili, cancellando la distinzione fra prima linea e fronte interno: ne deriva che, dirigendo attacchi contro i non-combattenti – e Hamas lo ha fatto per anni con le comunità lungo il confine con Gaza, fra sortite armate dai tunnel, palloncini e aquiloni incendiari – la parte del conflitto che detiene lo svantaggio tecnologico – Hamas, nel caso specifico – ha mirato a cancellare l’asimmetria, perché ha reso molto più difficile per Israele sfruttare il proprio vantaggio tecnologico.

Ma vi è un ulteriore dilemma strategico e di difficile soluzione per Israele e deriva dalle lezioni apprese dalla sua storia militare. Infatti, sebbene la supremazia tecnologica sia, e rimarrà, uno dei fattori del modus operandi più importante dell’IDF, proprio la guerra alle organizzazioni terroristiche che impiegano tali tattiche, quali Hamas o Jihad Islamica, ha mostrato di come sia fondamentale il pieno controllo del territorio nemico. Insomma, quel boots on the ground che, al di là di qualsiasi altra considerazione politica e giuridica internazionale, può essere fattibile per territori come Gaza o Cisgiordania, ma difficilmente potrebbe essere impiegata contro Hezbollah e Houthi, a meno di un più vasto conflitto regionale dalle innumerevoli incognite. Ed è su questo che puntano i nemici attuali di Israele.

Vi è poi l’altro fronte, il sud del Libano. A seguito dei continui attacchi dell’ultimo mese, l’obiettivo ebraico, dichiarato ufficialmente, è l’eliminazione e/o lo spostamento del nemico Hezbollah più all’interno del Libano, oltre il fiume Litani, come già previsto dalla UNR1701 (2006), con inevitabili danni collaterali, in considerazione anche del fatto che è operativa un’ala libanese di Hamas, localizzata dall’IDF nella città di Tiro1.

Gli Hezbollah seguono da tempo principi operativi come la creazione di un equilibrio di deterrenza nei confronti di Israele, proprio con attacchi in profondità di obiettivi civili (missili, razzi e UAV), per cui da settimane stanno impegnando l’IDF con lanci di missili e invii di droni (Ababil T2 iraniani), a cui l’IAF risponde con una massiccia offensiva di attacchi di precisione (sedi operative, infrastrutture, covi di esponenti di rilievo) e rapide manovre di terra multi-formazione, per accedere e danneggiare i centri di gravità di Hezbollah, sia nel sud del Libano che, da parecchio, in territorio siriano, oltre le alture del Golan.

Hezbollah non disporrebbe più della vasta rete di tunnel, distrutta in un’offensiva aerea ebraica nel 2018-2019. Tuttavia, come con Gaza, nasconde i suoi arsenali in centri abitati e la potenza di fuoco di Israele contro questi obiettivi, infliggerebbe enormi danni collaterali. Contenere quindi Hezbollah, come forza ibrida, tenace e sfuggente non sarebbe facile per Israele, nonostante il suo indubbio vantaggio tecnologico.

Una massiccia offensiva israeliana su questo fronte è, al momento, accantonata, per ovvi motivi di priorità strategica, sebbene non sia esclusa in caso di escalation regionale. Si tratterebbe, comunque, di attuare un’operatività completamente differente da quella ora in atto su Gaza con Hamas, data la difficile conformazione del terreno del confine (montuoso, strade strette ed impervie, fiumi, con rischio di sabotaggio dei ponti per frenarne l’avanzata).

È sempre stato scartato dalle autorità militari ebraiche anche lo sbarco anfibio in territorio libanese. Il 6 giugno 1982, all’avvio dell’operazione Pace in Galilea, in una sorta di D-day israeliano, avvenne uno sbarco consistente (la Shayetet 13, alla foce del fiume Awali e sulla spiaggia libanese), con un vantaggio strategico che, comunque, la leadership politica ebraica non riuscì a sfruttare appieno. Negli anni, tuttavia, vincoli di bilancio e mancanza di esperienza in un campo complicato, che richiede una stretta cooperazione tra unità aeree, marittime e terrestri, hanno allontanato l’evenienza che l’IDF utilizzi l’approccio marittimo nuovamente. Inoltre, le roccaforti Hezbollah si trovano a Dahiyeh, un sobborgo di Beirut, 55 miglia a nord del confine israeliano. L’ultima volta che l’IDF ha raggiunto Beirut via terra era sempre il 1982, impiegando circa una settimana: tempi ora insostenibili per l’altro impegno su Gaza e poi, al di là di tutte le considerazioni anche di opportunità politica, per il rischio di un allargamento del conflitto. Ciò non ha impedito, tuttavia, in queste ore, il sorvolo di caccia delle IAF proprio sulla capitale libanese.

E poi vi è la presenza dell’UNIFIL, per quanto non sia rilevante militarmente per nessuno dei contendenti, ma detiene quantomeno un ruolo di bilanciamento diplomatico per entrambi.

Nel fronte sud, quello estremo del Negev, vi è l’altra e nuova minaccia ad Israele, gli Houthi. Costoro, oltre agli attacchi con missili verso Eilat, sono stati protagonisti del sequestro in questi giorni della Galaxy Leader e del suo equipaggio nel Mar Rosso: una nave mercantile, priva di carico, di proprietà israeliana, con equipaggio di varie nazionalità, in un’operazione più di pirateria marittima che bellica vera e propria, a dispetto di un tentativo di deterrenza internazionale con il dispiegamento di navi statunitensi e un paio di unità ebraiche (un sottomarino lanciamissili e una corvetta). Permane però il dubbio che la nave fungesse da vedetta di un cargo iraniano ormeggiato da tempo in quelle acque e sospettato di essere un avamposto galleggiante dell’intelligence iraniana in un’area strategica come lo stretto di Bab el-Mandeb e Gibuti, con tutte le sue basi militari straniere.

Almeno dal 2019, il sequestro di navi come pure l’utilizzo di mine (al largo degli EAU) o l’attacco diretto con droni kamikaze (golfo di Oman) non sono certamente più una novità per Teheran in tutte le acque attorno alla Penisola arabica, con quanto ne consegue in termini di sicurezza per l’intero traffico commerciale globale. Attacchi che dimostrano una carenza di deterrenza per il resto della comunità internazionale, a fronte anche di una mancanza di reazioni e contromisure contro le numerose provocazioni iraniane, laddove l’Iran e i suoi proxy sanno di poter aspettare e decidere quando e dove attaccare in un’enorme area di oceano, attraversata da decine di migliaia di navi mercantili da tutto il mondo. E ora, pare, è il tempo per le navi di proprietà israeliana.

Un’altra sfida, quindi, infida e sfuggente, alla sicurezza, e non solo ebraica, a cui rispondere per non venirne sopraffatti e che, forse, Israele potrà fronteggiare sfoderando, questa volta sì, la propria supremazia tecnologica senza temere danni collaterali o imporsi con boots on the ground. Tuttavia, quando il nemico è un’entità sub-statale e non è governata da regole e dagli standard internazionali che si applicano agli Stati, è difficile tradurre il successo operativo in risultati politici, e il legame politico-militare diretto, in questo tipo di conflitto asimmetrico, tende ad essere sfocato, a meno che si applichi a tutti costoro l’approccio ebraico, che è ora quello contro Hamas, di “smembramento del sistema nemico” e il conflitto si allarghi agli Stati procuratori di questi gruppi terroristici.

1 Il 21 novembre è stato infatti individuato e ucciso, con un attacco mirato, insieme ad altri tre terroristi, il suo vice comandante Khalil Kharaz.

Foto: IDF / X